I racconti di nonna Peppa | Estratto | Artisti di Borgo
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I racconti di nonna Peppa

Rosalba Griesi

  1. Al viaggiatore che giunge dalla tenuta di Santa Lucia e s’immette sulla strada provinciale 21 delle Murge, sul rettilineo che punta il paese, Palazzo San Gervasio appare su una di quelle colline «che orlano le pianure pugliesi».
  2. Da Est, territorio di Spinazzola,6 lo spettatore ammira le prime case appollaiate attorno al Palatium Regium, di maestosa mole, guardato frontalmente dalla Chiesa Matrice, in stile romanico pugliese, intitolata a San Nicola. Da lì a Occidente le costruzioni sfumano e corrono a incastonarsi nei rilievi del Vùlture. «Tinte di un azzurro sfumato si profilano da sinistra: la piramide tronca su cui è adagiata Acerenza, più a destra il colle arrotondato di Forenza e poi all’estremità il profilo imponente del monte Vulture». Il maniero, dal colle più alto, 483 metri sul livello del mare, domina la pianura che delinea la Murgia rocciosa, i rilievi del Gargano e il Golfo di Manfredonia, che nei giorni dai cieli chiari, si riescono a scorgere. «Siede Palazzo a cavaliere di un’amena collina, e lo cingono intorno terreni fertilissimi addetti a svariate colture. Vasto è il suo orizzonte, e deliziosa la veduta che si presenta allo spettatore dalla parte di settentrione e di Oriente». Ma quel che rende più suggestivo il paesaggio è la presenza di grotte disseminate lungo i fianchi delle dolci colline sulle quali il paese si adagia, il verde dei boschi e le numerose fontane di acqua sorgiva. Spettacolare è la pianura pezzata, marrone al tempo della semina, verde al tempo della fioritura o gialla di colza, bionda al tempo della mietitura: campi che all’orizzonte si perdono e sfumano allo sguardo sino allo svanire.
  3. Il castello «edificato nel 1050 circa, probabilmente da Dragone di Altavilla, conte di Puglia, (1046-1051) o dal fratello Umfredo che gli successe (1051-1057) e riattato in seguito da Federico II di Svevia», inizialmente, fu destinato a residenza di campagna dei Prìncipi Normanni e luogo di caccia e di svago degli Svevi. Intorno vi erano le case della servitù che divennero il rione Santo Spirito, ancora oggi esistente. Al centro dell’abitato, addossata al castello, sorgeva una chiesetta scomparsa alla fine del Cinquecento, costruita, probabilmente, da devoti lombardi al servizio dei Normanni. Questa chiesetta era dedicata e intitolata ai gemelli Gervasio e Protasio, Santi martiri vissuti nel II secolo dell’era volgare a Milano. Il nome attribuito al paese Palatium Sancti Gervasii, compare, per la prima volta, nella Bolla Pontificia del 10 dicembre 1201 di Innocenzo III (1198-1216). Federico II di Svevia fece del castello una dimora di caccia e un luogo di allevamento dei cavalli della razza murgese e di cavalli arabi, preferiti dal sovrano. Fu il principe Manfredi, figlio naturale di Federico II e di Bianca Lancia, a trascorrere qui un lungo tempo di convalescenza per una broncopolmonite. Corso Manfredi che divide in due la cittadina è dedicato al Principe ammalato che l'aria salubre dei boschi, ancora oggi lussureggianti, le acque fresche della Fons Bandusia di oraziana memoria, ritemprano nel corpo e nello spitirto.
  4. Nonna Peppa era fiera di abitare in via San Protasio la cui statua - diceva- era stata ritrovata in un punto imprecisato della strada. Si rammaricava, tuttavia, che l’effige fosse stata smarrita chissà dove, mentre quella di San Gervasio è ancora oggi conservata presso la Chiesa del Crocifisso.
  5. Nei primi decenni del Novecento, «Palazzo San Gervasio era un paese povero come la maggior parte dei paesi della Basilicata, nonostante fosse considerato uno dei più evoluti. Mancava la luce in casa e si adoperavano candele o lumi a petrolio. Per le vie c’erano lampioni a petrolio che gli addetti accendevano sull’imbrunire e noi ragazzi li seguivamo, e ad ogni lampione acceso, urlavamo e saltavamo di gioia. Mancavano le fogne e di conseguenza non c’erano servizi igienici nelle case: ogni sera passava un carro-botte e una donna addetta ritirava e vi scaricava i maleodoranti recipienti. Mancava l’acqua potabile in paese e per rifornirci bisognava recarsi presso le due fontane, quella Rotta verso la stazione ferroviaria o quella del Fico sulla via per Spinazzola. C’erano persone che con asini, cavalli, muli caricavano più barili di acqua per poi venderla alla comunità. A quell’epoca ricordo che esisteva in paese una sola bicicletta che apparteneva a un certo Roberto Campanelli. Quando passava alla guida di quell’arnese molta gente accorreva e stupita si chiedeva come potessero due ruote rimanere in equilibrio».
  6. Secondo le memorie di Domenico Procida, nel primo ventennio del Novecento, in paese vi erano 13-14 famiglie di Signori, di cui 1-2 per nobiltà, come la famiglia D’Errico che ha fatto la storia del paese. Vi erano poi quelle per merito, per valore militare o intellettuale, per partito politico o possedimenti agrari. Maestri, medici, avvocati e farmacisti costituivano le famiglie dei professionisti salutati dal popolo con il “don”, levandosi la coppola e accennando un inchino. La farmacia era il luogo degli incontri serali, preferito dai signori, dove si discuteva del più e del meno. Vi erano poi i galantuomini, ossia quel ceto che aveva conquistato un certo benessere: commercianti provenienti, per lo più, dalla Puglia, impiegati, proprietari terrieri. […] Gli artigiani che non appartenevano a categorie particolari, erano semplicemente considerati galantuomini benestanti. […] All’ultimo gradino della scala sociale vi erano i contadini, i cosiddetti “cafoni” la cui vita non era certo facile. Si alzavano all’alba e, zappa in spalla, si recavano con le donne nei campi alla giornata. A pranzo c’era del pane col formaggio e acqua. Il lavoro durava sino al tramonto. A quell’ora le strade sterrate, le mulattiere erano affollate e nonostante tutto festose. Si ritornava in processione, gli uomini a gruppi con gli scarponi impolverati e le zappe sporche di terra; le donne in fila portavano, sul cèrcine, posto in testa cesti pieni di verdura o di frutta raccolta nei campi durante le ore di lavoro. La schiena si curvava sotto quel peso perciò levavano in alto una mano per sorreggere il cesto e l’altra sul fianco per creare una sorta di equilibrio. A cena pasta e fagioli e un bicchiere di vino. Il secondo si mangiava soltanto nei giorni di festa, a Natale e a Pasqua.
  7. Scorteccia la favetta
  8. a mollo nella pignatta
  9. la grama vecchietta.
  10. Con l’ago e gli occhiali
  11. dovrà ancora spulciare
  12. tutti i bruchi dalle tane.
  13. […]

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