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Sommesse voci della mia terra

Mariangela Biffarella

Sul telaio

 

Una sola lacrima bagnava, a tratti, la tela di lino montata sull’antico telaio che occupava un intero angolo della stanza.

Una porta si apriva sullo spiazzo antistante la casa, a gettare un po’ di luce in quell’ambiente cupo e vuoto in cui echeggiava il ticchettio di una sveglia che non si era mai stancata di scandire il tempo.

Un drappello di sedie di zammara, schierate lungo le pareti imbiancate di calce, pareva attendere da un lontano passato ospiti mai giunti.

Nessun altro mobilio, se non un canterano e un tavolo zoppicante poggiato alla parete, arredava la stanza, dalle cui travi inarcate pendevano trecce di cipolle, collane d’aglio, graspi di peperoncini rossi e grappoli d’uva passa. Sull’architrave della porta, allineate in fila indiana, maturavano le poche mele del podere.

Al di sopra del tavolo, dentro una cornice ovale, una stampa del Cuore di Gesù decorava la parete nuda e una miriade di santini, foto ingiallite e rametti d’ulivo benedetto gli facevano corona, incastrati dietro la cornice.

Fuori, persino in quel paese che pareva sonnecchiare, pigramente adagiato sulla sella dei monti, la vita procedeva, seppure a lenti passi, per cercare di tener dietro al progresso. Ma in quella stanza il tempo pareva essersi fermato sgomento, quasi mummificato.

E su quel telaio, con l’unica compagnia di quelle sedie vuote, schierate come fantasmi lungo le pareti, i capelli di Pina si erano imbiancati al ritmo cadenzato della sveglia in cui il tempo, ostinato, faceva risuonare la fragorosa eco dei suoi passi.

Ma il suo orecchio rimaneva sordo e lei tesseva filati di lino, fragili come il filo della vita, e gomitoli di cotone, le cui trame avevano lentamente imprigionato i suoi anni più belli. Ma anche di questo lei pareva non curarsi e ogni santo giorno, da quando aveva appena dodici anni, continuava ad apparecchiarsi la vita sul telaio: tendeva i fili dell’ordito tra i due subbi paralleli; sistemava i contrappesi; si sedeva e azionava i licci per divaricare i fili dell’ordito tra i quali lasciava correre, da una parte all’altra, la navetta col filo della trama. Poi abbassava il pettine del telaio e batteva il filo appena intrecciato sull’altro.

E di fili e di anni ne aveva intrecciati e battuti tanti, Pina, su quel telaio, in quella stanza in cui il tempo non era mai riuscito a cambiar faccia.

Ma le sue navette avevano continuato a correre coi loro fili da una parte all’altra dell’ordito, insieme ai suoi pensieri.

Ah, se solo la trama dei tessuti avesse avuto voce! Avrebbe potuto svelare al mondo intero tutti i segreti di Pina. Ma i tessuti, si sa, non hanno bocca e, costretti come sono al silenzio, avevano custodito quei pensieri, saldamente intrecciati alle loro fibre, pur portandoseli dietro in ogni casa o letto di sposa dov’erano approdati.

E sulla tela che si avvolgeva al subbio, lei rivedeva, come riflesse su uno schermo bianco, le immagini della sua vita passata che si rappresentava tutti i giorni, incurante di ciò che accadeva fuori da quella stanza, dimentica del presente e degli anni che, ad ogni tramonto, le sfuggivano di mano come inutile sabbia tra le dita.

Tra tutte le sembianze che emergevano da quel passato, ve n’era una che spiccava sempre più nitida e lucente delle altre.

Era quella di Turiddu, un ragazzino dalla pelle bruna e gli occhi verdi che il padre di Pina, quando restava in campagna per la mietitura, mandava in casa loro, in groppa al mulo, a scaricare i sacchi di grano.

Era così povero, Turiddu, che andava in giro a piedi nudi con un paio di calzoni rattoppati, sempre uguali, estate e inverno. Ma i suoi occhi irradiavano una luce che a Pina mordeva il cuore e mozzava il respiro.

Così passava tutto l’anno nell’attesa che il grano fosse maturo per la falce, solo per vederlo arrivare e illuminare lo spiazzo ombroso che si apriva davanti a quella stanza, dove lei aveva preso il posto della nonna al telaio.

Allora si aggiustava il corpetto, nel quale cominciava a fiorire il piccolo seno adolescente, si ravviava i capelli con le dita, si pizzicava un po’ le guance per accendervi un’ombra di colore, e gli correva incontro per aprire il granaio. Quando lui la guardava con quei suoi lunghi occhi maliziosi, lei sentiva il sangue frizzarle nelle vene e una vampata, come di paglia arsa, le infiammava il viso che, a furia di stare chiusa in quella stanza davanti al suo telaio, era scarno e pallido come una pianta cresciuta in penombra.

L’anno in cui il timore dei bombardamenti spinse û sù Filippu, suo padre, a cercare in campagna un rifugio sicuro per la sua famiglia, Pina aveva sedici anni e sua sorella Caterina tredici.

Una sera di giugno û sù Filippo rincasò con due muli e disse alla moglie Filomena: «In campagna dobbiamo andare che lì al sicuro siamo. Pigliati quattro pezze ché mi feci prestare un altro mulo e domani, di prima mattinata, zitto tu e zitto io, ci facciamo la strada».

Pina non ci dormì e sragionava dalla contentezza: «Oh, finalmente! Ci voleva na guerra per uscire da questa casa!» diceva alla sorella, che cercava di dormirle accanto. E già immaginava Turiddu tra quei campi.

All’alba suo padre arrotolò i materassi di crine e li caricò sul mulo; sua madre dispose il necessario dentro ai due cestoni, in groppa all’altro mulo, e si avviarono a piedi mentre il sole cominciava a spennellare il cielo con le sue dolci tinte rosate.

Pina sentiva il cuore dilatarsi, per contenere la gioia che sentiva. Respirava l’aria frizzante del mattino a pieni polmoni e pensava che presto sarebbe stato tempo di mietitura e avrebbe rivisto Turiddu. Questo pensiero le metteva alle gambe una tale energia che la faceva inerpicare lungo il viottolo scosceso con la vitalità di una capretta, tanto che gli altri faticavano a starle dietro.

Abituata com’era a stare chiusa in casa, tutto il giorno a quel telaio, Pina si guardava intorno con l’avidità di chi, preso da fame antica, ingurgita d’un fiato un piatto di minestra ancora troppo caldo.

Correva da un ciuffo di ginestra ad un cespuglio di rosa canina e qui coglieva i fiori gialli per ornarsene i capelli, e lì spiccava bacche rosse per intrecciare collane.

In campagna, il casolare in pietra era nascosto tra gli ulivi e consisteva di un’unica stanza ed un fienile. Era proprio il rifugio ideale.

Appena giunti, suo padre scaricò i muli e sua madre, dopo aver ramazzato il pavimentato della stanza con la scopa saggina, dispose i materassi lungo le pareti, sistemò le cose che si era portata dietro e prese ad alimentare il fuoco della tannura per cucinare. Intanto Pina e Caterina corsero giù fino al pianoro dove û sù Filippu era solito seminare il grano, per spiare la doratura delle spighe.

Che meraviglia! Sembrava proprio una coltre intrecciata con fili d’oro e ricamata di papaveri rossi. Prima o poi Pina avrebbe voluto tesserne una uguale, magari per il suo letto da sposa.

Le spighe piegavano la testa e oscillavano al soffio del vento caldo, come un mare dalle onde cangianti, e lei, guardandolo, tornava a dipingersi Turiddu a torso nudo tra le spighe, con la sua falce in mano, la pelle brunita dal sole e gli occhi verdi variegati di giallo, proprio come le spighe al sole quando ancora è maggio.

Già si prefigurava lunghe giornate spensierate, dimentica del telaio e dell’odiosa penombra della stanza. Ma la gnaFilomena non era donna usa a sprecare il tempo, che giudicava più prezioso del denaro, così s’era portata dietro tutte le pezze e i vestiti lisi che teneva in casa dentro una cassapanca, forbici, ago e filo.

«L’oziu patruni di li viz è!» sentenziò col suo parlare arcano, brandendo le forbici in mano. «Pigliatevi i fullizzi e sedetevi sotto l’ulivo per ritagliare le pezze». E quando la gna Filomena ordinava bisognava obbedire, non c’eran Santi! Persino suo marito stentava a contrariarla. Ma a Pina la cosa non dava peso. Con mano esperta prese a ritagliare pezze e vestiti per ricavarne lunghe strisce, larghe un dito. Caterina, intanto, ne cuciva le estremità e le avvolgeva in grossi gomitoli.

Era questo il lavoro con cui si preparava il materiale per tessere le frazzate, un tipo di tappeti che si ottenevano intrecciando le strisce di pezza con un robusto filo di cotone. La maestria della tessitrice stava nel disporre i colori delle pezze in modo da creare armoniosi accostamenti.

Le frazzate facevano parte del corredo di ogni sposa perché, venivano usate come coprirete o per il letto in cui si metteva il pane a lievitare.

Andava lesta Pina con quelle forbici, costringendo Caterina a tenerle dietro: voleva liberarsi da quell’impiccio prima della mietitura, che sperava godere in libertà e spensieratezza.

In capo a dieci giorni le due sorelle avevano finito il lavoro e riempito due cartedde, di gomitoli. Mamma Filomena non poteva lamentarsi e, soprattutto, non aveva altro da inventarsi per porre rimedio «all’ozio padre dei vizi» delle figlie: doveva concedere anche a loro di godere un po’ di spensieratezza tra quei campi e quelle spighe d’oro.

«Domani mattina cominciamo a mietere» annunciò û sù Filippu mentre, seduti sotto le fronde dell’ulivo davanti al casolare, godevano il fresco della sera e il concerto instancabile dei grilli.

Pina sentì il cuore esploderle in petto.

All’alba, era già corsa al fiume per lavarsi e specchiarsi nelle sue fresche acque. Voleva farsi bella per Turiddu. Perciò sciolse la lunga treccia e lasciò fluire i folti capelli neri sulle spalle, vaporosi come le onde.

La gna Filomena la sogguardò con occhi maliziosi e bisbigliò all’orecchio del marito: «’Sta figghia nostra a momenti di marito è, meschini noi! Lo sai quanto ci vuole a prendere il volo? Niente!» e nel dire ciò, soffiò tra le dita, come se stringesse una piuma che, a quel soffio, s’involasse in aria. Poi tornò a bisbigliare: «Vardala com’è bedda! A questa pure senza dote la maritiamo!»

«Senza dote? Ma che ti fa dire la testa, Filumè?Dalla mia casa a fronte alta se ne devono uscire le mie figlie, pure che m’impegno gli occhi, corpo di Giuda!» protestò u su’ Filippo, lanciando uno scaracchio sul tronco dell’ulivo.

«Ma certo, che non lo so pure io? Parlavo, tanto perché c’ho la bocca! Maria Santissima! T’appiccichi subito come un sarmento secco!».

Intanto Pina tesseva con gli occhi l’orizzonte che schiariva lentamente.

L’aria era mossa da un venticello caldo che soffiava dal mare e profumava di ginestre e mentastri. La valle risuonava del latrato dei cani che annunciava il passaggio dei braccianti.

Quando il profilo degli uomini cominciò a disegnarsi all’orizzonte, Pina stentò a distinguere Turiddu, che ormai era alto come gli altri. Temette che non ci fosse, così sentì gelarsi il sangue, quando se lo trovò davanti, già uomo.

Le spalle ampie, il gilet appeso al dito e rovesciato sulle spalle, la camicia spavalda aperta sul petto irto di peli scuri…

Lo sguardo di Turiddu le corse rapido sul corpo, con l’intensità di una lunga e tenera carezza, e lei, stretta da un brivido, rimase inchiodata al suolo, non riuscì a fiatare.

«Voscenza bbenerica!» dissero in coro gli uomini.

«Salutamu!» rispose û sù Filippu. E senza tanti preamboli prese a discendere il sentiero pietroso verso il campo e a spronare gli uomini: «Amunì, mettiamoci al lavoro ché ci aspetta una giornata di fuoco».

Pina avrebbe voluto seguirli, col pretesto di vederli mietere, ma la gna Filomena non glielo permise: era impensabile che una ragazza, andasse dietro a tutti quegli uomini. «Tu femmina sei, tienilo sempre a mente!» l’ammonì. Così le toccò restare ad aiutarla in cucina.

«Vai a pigliare l’acqua» ordinò verso le dieci. Pina non se lo fece dire due volte, afferrò gli orci e corse alla cuba, decisa ad attingere l’acqua e poi correre al campo per sbirciare Turiddu, che si era fatto bello da mozzarle il fiato. Ma alla cubatrovò proprio lui, chino ad attingere l’acqua col suo orcio. Essendo il più giovane dei braccianti, era stato mandato a prendere l’acqua, che non bastava mai a saziare l’arsura di quegli uomini, chini a falciare il grano sotto il sole, sempre più rovente.

Anche Turiddu ebbe un sussulto nel vederla. La guardò dalla testa ai piedi e, con voce arrochita dal turbamento, le sussurrò: «Sangue di Giuda, Pina, davvero bedda diventasti!»

Lei sapeva bene, per averglielo più volte predicato la gna Filomena, che in quella circostanza avrebbe dovuto schermirsi, come si conviene ad una brava picciotta seria e onesta. Ma quando mai avrebbe potuto incontrarlo da solo a sola un’altra volta? Così gli rispose: «Magari tu ti sì fatto beddu, Turì!».

Lui, galante, si offrì di riempire i suoi orci e lei, civettuola, lo lasciò fare.

Dal momento che il caso si era fatto complice, i due ragazzi concordarono di incontrarsi ancora, la notte: quando Turiddu avrebbe simulato il verso del merlo, Pina sarebbe corsa alla cuba.

Che gioia per lei quelle giornate roventi, quel frinire di cicale, quel brivido che le correva in corpo e le faceva tremare il cuore! Non era mai stata così felice, avrebbe voluto che il tempo si fermasse. E invece quello volò veloce più del vento e presto giunse il tempo di trebbiare.

Una volta falciato, il grano fu disposto in covoni nel campo, arso di stoppie. I braccianti raccattarono le loro cose in un fagotto, si legarono la falce dietro le spalle e tornarono a casa. Rimase solo Turiddu che, essendo solo picciotto, si accontentava di una paga modesta; e poi al Filippu quel ragazzo piaceva perché era svelto e forte come un puledro di buona razza.

Partiti i braccianti, û sù Filippu prese a interrogare il cielo e ad annusare l’aria, per scorgervi i segni del vento più propizio alla trebbiatura.

Intanto Pina e Turiddu si incontravano tutte le sere. Lui imitava il canto del merlo e lei correva alla cuba col cuore in gola.

Quando tornò a soffiare il vento marinaro carico di profumi, Turiddu e il vecchio trasportarono i covoni sull’aia, posta su un’altura esposta ai venti, e qui li sciolsero e disposero le spighe sul terreno. Il vecchio prese il mulo per le briglie e cominciò a spronarlo con la verga perché corresse in cerchio, mentre lui, impalato al suolo come un perno, lo incitava: «Arrih! Prrh! Passa dda!». E il mulo correva e il grano sgusciava dalle spighe.

Turiddu, appoggiato al forcone, aspettava di dargli il cambio.

Quando il mulo ebbe pestato tutto il grano, venne portato fuori dall’aia, abbeverato e rifocillato, ma per i due contadini il lavoro non era ancora finito: ora se la dovevano discorrere col vento. A torso nudo e con un fazzoletto rosso stretto sulla testa, presero i forconi e cominciarono a sollevare la paglia per offrirla al vento che, soffiando, la portava via. Un denso turbinio di pagliuzze avvolgeva gli uomini e si incollava ai loro corpi, bruniti dal sole e madidi di sudore. Ora sull’aia rimaneva solo il grano, che veniva grossolanamente vagliato nello staccio per separarlo dalla pula.

A sera, il sole calava dolcemente sulla fatica dei contadini, baciando le dorate dune di grano lavorate dal vento e accendeva le pagliuzze sulle loro spalle, mentre, in ginocchio, recitavano antiche preghiere di ringraziamento. Ora giungeva il momento più atteso della giornata, quello di misurare e insaccare il grano dentro capienti sacchi di juta e depositarlo nel granaio.

Sarebbe stato compito delle donne nettarlo di fino prima di portarlo al mulino e poi sulla tavola, sotto forma di pane.

La ‘gna Filomena avrebbe chiamato a raccolta le vicine, si sarebbero sedute intorno alla buffetta, sotto il pergolato dell’andito e, chiacchierando del più e del meno, o spettegolando come si conviene tra comari di paese, avrebbero atteso minuziosamente a quel lavoro che per loro, abituate ai lavori pesanti, era solo un passatempo.

A Pina piaceva guardarle dal suo telaio: sedute ai quattro lati della buffetta colma di grano, trascinavano, ciascuna avanti a sé, una manciata di grano, la spianavano con la mano e, scorrendo i chicchi tra le dita, li esaminavano accuratamente per scovare ogni pietruzza, veccia o loglio, per afferrarli tra indice e pollice e lanciarseli dietro le spalle.

Il tempo di Pina e Turiddu ormai volgeva al termine, così una notte, alla cuba, si scambiarono il primo bacio e mille promesse.

La mattina Pina si svegliò leggera come un seme di soffione. Si sentiva farfalla smaniosa di volare, agile gatto desideroso di correre e saltare, gabbianella di mare impaziente di gridare ai quattro venti tutto l’amore che sentiva dentro. Ma dovendo ancora nasconderlo, cominciò a ridere e scherzare, a correre e saltare come un grillo: stuzzicava la sorella e scappava per farsi rincorrere. Saltava e correva ridendo a più non posso, poi si girava indietro per vedere se Caterina la raggiungeva e… in questa, mentre tornava a girarsi di scatto, si ritrovò davanti al viso il dente del forcone che le si conficcò in un occhio. Com’era finito lì quel forcone solo la mala sorte infame lo sapeva, perché suo padre, schiaffeggiandosi il viso, giurava tra i singhiozzi di averlo poggiato al tronco dell’ulivo.

«Oh, Santa Luciuzza! Almeno salvale la vista a questa figlia mia! Fammela questa grazia ché d’ora innanzi la chiamo come a-ttia ‘sta figghia sfortunata, Santa Luciuzza mia!». Pregò fino a perdere la voce la gna Filomena, ma Santa Lucia si fece cieca e sorda davanti a quello strazio. Né a nulla valse la corsa in paese a dorso di mulo. Per quell’occhio, che aveva visto e conosciuto l’amore e la felicità del primo bacio, non ci fu scampo. Come un funesto sipario, la palpebra oscurò la luce della giovane anima della tessitrice.

L’anno dopo, quando con l’occhio buono tornò ancora a scorgere Turiddu, Pina non riuscì più a incrociare il suo sguardo, che si era fatto sfuggente.

Poi, una notte in cui un ciottolo di luna argentava il sentiero della cuba e i grilli concertavano ruffiani, udì il richiamo del merlo. Col cuore in gola pieno di speranza, spiò dalla finestra e… li vide correre abbracciati, Turiddu e sua sorella.

Fu allora che, come se un nuovo invisibile sipario fosse calato anche sull’occhio buono, nel cuore di Pina scese una coltre di buio così spessa che neppure i raggi più fulgidi del sole riuscirono mai più a diradare.

Di lì a poco Caterina sposò Turiddu ed ebbe in dote tutte le tele e le frazzate che Pina aveva tessuto sul telaio, intrecciando fili di lino e sogni.

Nessuno mai la chiese in sposa, con quell’occhio…

A lei toccò tessere sul telaio la sua vita cieca di speranza, chiusa in quella stanza oscura e vuota dove il tempo, pur scandito dal fragore assordante dell’antica sveglia, per lei si era fermato.

E quando oramai la televisione blaterava in ogni casa e la plastica soppiantava le antiche terre cotte e i rami, in paese si tenne il mercatino settimanale con le sue bancarelle straripanti di tessuti sintetici a buon prezzo, altro che lini in pezza! Allora, nessuno volle più ritagliare vecchi vestiti e pezze per tessere frazzate, né faticare per sbiancare i tessuti di lino e di cotone in pezza.

Il progresso cambiava faccia ad ogni cosa e i monelli correvano in frotta a sbirciare dalla porta-finestra della tessitrice quella stanza, intrappolata nel passato, come se andassero sulla macchina del tempo, indietro a tutta birra.

E lì vedevano l’anziana tessitrice intenta al suo telaio, come fosse un fantasma in carne e ossa.

E quando Pina non ebbe più nulla da tessere e recise l’ultimo filamento della trama, fu come se avesse troncato per sempre il filo che la teneva in vita.

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