Ratafia, cipolla e aglio | Estratto | Artisti di Borgo
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Ratafia, cipolla e aglio

Fabrizio Fiorente

Venne finalmente l’inverno e con esso la neve, tanta neve, di quella che spinge il TG regionale a raccomandare che gli anziani stiano in casa. E ovviamente, quando agli anziani del paese si consigliò di stare a casa, quelli interpretarono a modo loro e quindi tutto ciò che successe fu che invece che ritrovarsi al baretto, alla cantina, camminavano nella neve fino alla casa del compare e si scolavano la damigiana buona, mentre molti padri di famiglia rimanevano a dormire vicino alle industrie o nei capannoni per evitare di prendere il ghiaccio in strada della mattina presto. Crocchi di persone di entrambi i sessi e di ogni età si formarono tra stufe e camini, la neve fuori rendeva tutto più ovattato, i tentacoli dell’impresario sembravano lontani ed io mi sentii di nuovo parte di quel tutto, come quando ero bimbo. Era il mio momento.

 

Una domenica di dicembre Zi’ Ginetto venne a suonare al mio campanello ma, siccome il citofono non funzionava, mi dovetti affacciare: vidi le sue impronte per tutta la piazza, lo rimproverai per essere uscito col freddo, ma lui non si perse d’animo e incalzò:

 

<<Dottò, a me non mi hanno ucciso i tedeschi e nemmeno gli americani, la neve l’ha sempre fatta, che sarà mai? Fatti i fatti tuoi e vedi se vuoi venire a pranzo da Concettina, che da quando sei tornato ancora ti vede e tu a forza di scatolette hai fatto la faccia da tonno.>>

 

Come avrei potuto rifiutare? In effetti la mia dieta non era cambiata molto rispetto all’orrore londinese ed era tutta colpa mia. Ma non avrei imparato a cucinare i piatti abruzzesi quella domenica: mi aspettava un pomeriggio indimenticabile. Presi il giaccone, infilai i “mumbùt” e mi precipitai giù per le scale, non volevo che Zi’ Ginetto aspettasse al freddo. Arrivato in fondo mi accorsi che lui aveva delle normalissime scarpe, i soliti pantaloni di velluto ed una giacca autunnale, il tutto sormontato però da una sciarpa ed un colbacco tanto imbottiti da fare invidia ai Totò e Peppino della Malafemmina. Seguimmo a ritroso la scia che Ginetto aveva lasciato nella neve fino ad arrivare in una delle tante casette basse che si allineano ai bordi delle traverse della statale. Ci scrollammo la neve di dosso, entrammo all’interno buio e mi assalì come in un violento abbraccio una sensazione di calore intenso misto a vapore, legna, sugo, carne al camino e prosciutto fresco di taglio. Ci misi un po’ a fare gli occhi per l’ombra e quando fui pronto riuscii a distinguere un altro signore anziano seduto al tavolo, intento a pulire un cavolo, due bimbi arroccati in un fortino di cuscini e lenzuola e due magnifiche signore, madre e figlia, che si muovevano con padronanza e sicurezza nella minuscola cucina, tutto in un unico ambiente, scaldato dal focolare. Al mio ingresso tutti mi fecero festa, nonostante io non conoscessi nemmeno i loro nomi, e mi invitarono ad entrare, come se Ginetto non mi stesse già spingendo con vigore, che fuori c’era un freddo di quelli che non facevano dal cinquantasei. Suo cognato Benito aveva terminato il lento processo di pulitura del cavolfiore e, lasciando il coltello nella ciotola degli scarti, si alzò con un po’ di fatica, mi porse la mano, si tolse il cappello e si presentò come Ninì. Preso dalla curiosità chiesi per cosa stesse Ninì, ma la risposta fu che Ninì stava per Ninì, mannaggia a suo padre che era fascista. Concetta, moglie e massaia d’altri tempi, lo redarguì per averci messo un’ora a pulire un misero cavolo mentre lei aveva fatto tanta roba da sfamare tutto il quinto reggimento, che ora avrebbe cotto il contorno in ritardo e che il Dottore avrebbe dovuto aspettare i comodi di Ninì. Io ero troppo preso da quel calore famigliare anche solo per poter essere garbatamente complice di quella battuta e, mentre un sorriso dolce mi si definiva sul viso, i due bimbi, un maschio e una femmina che avranno avuto all’incirca sei anni, uscirono dalla fortezza di stoffa e con coraggio sfidarono la timidezza, chiedendomi se per lavoro curassi le bue. Antonietta, madre dei due e figlia di Concetta e Ninì, li riprese bonariamente e gli spiegò che non ero un dottore dottore, ma che mi si chiamava così perché avevo studiato tanto. Seguì una prevedibile raffica di “perché?”, finché il pranzo non fu pronto in tavola. Tutti si prodigarono nel servirmi e nel badare che fossi ben sazio: io in realtà già al primo piattone di pecorara ero arcipieno, ma nonostante tutto riuscii a gustarmi anche la scarpetta, i cavoli lessi, il prosciutto stagionato e le salsicce del maiale vecchio al camino, che tra un po’ sarebbero arrivate le nuove e quindi le vecchie andavano consumate. Seguirono cantucci caserecci, caffè e genziana illegale fatta in casa, quindi il tavolo fu sgomberato, i bambini furono parcheggiati davanti alla TV e noi altri ci sedemmo a chiacchierare, con i bicchieri che di tanto in tanto venivano riempiti da Ninì, alternativamente ratafia e nocino.

 

<<Mi avete accolto veramente come fossi uno di famiglia…>>

 

La risposta era negli occhi di tutti ma rispose Ninì, che parlando corrugava enormemente la fronte spostando involontariamente il berretto sulla pelata e che quindi era costretto ad aggiustarselo ogni tre per due.

 

<<Ma se compare Ginetto t’ha visto nascere! Che t’aspettavi? Che con ‘sta neve ti lasciavamo a casa a mangiare il tonno in scatola?!>>

 

Seguì una risata generale. Mi sentii un po’ manipolatore a portare il discorso dove desideravo arrivasse.

 

<<Ma quindi chi è quest’impresario? Sento parlare di lui da quando sono arrivato, pare che sia ovunque, a momenti anche qui, possibile che non si riesca a fare a meno di lui?>>

 

Al che Ginetto buttò giù il cicchetto di ratafia tutto d’un colpo, alla calata, e sbatté il bicchierino sul tavolo. Complice l’alcol, si scrollò di dosso ogni pretesa di italianismo e finalmente usò la sua lingua madre.

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