Quando il sole si prendeva sui terrazzi | Estratto | Artisti di Borgo
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Quando il sole si prendeva sui terrazzi

Nadia Dicursi e Nadia Dicursi

Nel 1948 mia madre e sua sorella, le più piccole della famiglia, si appassionarono a un programma radiofonico per ragazzi, che veniva trasmesso una volta a settimana: Lucignolo.

Liliana, l’amica di mia zia possedeva una radio. Ed era lì, in quella casa, che le due sorelle si precipitavano per non perdere nemmeno una puntata. Aspettavano pazienti che arrivasse quel giorno. Era una trepidante attesa, come solo allora poteva essere, lunga e interminabile, ma che alla fine, regalava quella gioia che oggi non ritroviamo più negli occhi di un bambino.

In quegli anni la vita era difficile. Le famiglie italiane erano uscite a fatica dalla guerra. Tutto quello di cui disponevano era già abbastanza per essere felici.

Il rione popolare dove viveva mia madre non era molto lontano dal centro.

La gente non aveva grossi mezzi per vivere, più che altro si trattava di sopravvivenza; il telefono, la macchina, il televisore, erano un lusso di pochi. C’era una sola famiglia dalle mie parti che possedeva quella scatola magica che rimandava immagini in movimento. Che fortuna!

«Stasera tutti a casa di Antonio, c’è Lascia o raddoppia?», la voce correva tra i vicoli... E quella era una serata speciale, la più bella della settimana. Si aspettava felici che si facesse sera fin dalla mattina, forse anche nella speranza di "quell'incontro" importante, o per sfoggiare un vestito, e anche, per ascoltare e raccontare le ultime novità. Grandi e piccoli tutti lì, insieme, uniti a respirare questa grande solidarietà di quartiere.

La casa era gremita, pochi posti a sedere e il resto in piedi. Ma cosa poteva importare? C’era Mike Bongiorno. Ma come faceva a muoversi dentro quella scatola? Da dove uscivano le parole? Quel piccolo schermo aveva la potenza di far ridere, di avvicinare, di raccogliere tutti, di animare quelle serate e far sopraggiungere finalmente un po’ di spensieratezza dopo tanto tempo, dopo tutta la sofferenza patita in quei lunghi e duri anni della guerra.

E Antonio? Beh, anche lui era felice. Felice di offrire tanta serenità, anche se dopo si ritrovava una casa completamente da ripulire.

Mia mamma viveva in questo contesto insieme alla sua famiglia, anzi, alla sua numerosa famiglia: madre, padre, un fratello e cinque sorelle.

Abitava al terzo piano, al centro di questo quartiere popolare, in una casa di due stanze, bagno e cucina.

Mio nonno era musicista, e lavorava solo occasionalmente, quando riteneva che quel lavoro offertogli fosse alla sua altezza. Si recava ogni giorno alla Galleria Umberto I, dove all’epoca tutti i musicisti passavano il loro tempo in cerca di impieghi più o meno rispettabili.

I frequentatori diurni della Galleria erano gli attori e i professori d’orchestra in cerca della buona occasione, dell’agognato contratto. Attenti, sedevano ai tavolini di un caffè vicino al Salone Margherita, oppure si intrattenevano in gruppi, in attesa che qualcuno li notasse o che portasse la buona notizia della formazione di una nuova compagnia teatrale o di un complesso strumentale di cui far parte. Anche oggi le cose non sono poi così cambiate, e proprio lì, al centro di questo posto così noto, dove c’è il pavimento decorato con i segni zodiacali, si incontrano aspiranti artisti locali. Ed era qui che mio nonno passava il suo tempo, sempre speranzoso, anche lui in attesa di un colpo di fortuna o forse meno, di un contratto che gli avrebbe dato la possibilità di guadagnare un po’ di soldi. Non sempre questo accadeva, ma lui non si avviliva. Trovava dentro di sé una giustificazione per quel tempo perduto. Si faceva lustrare le scarpe, in Galleria era un rito; faceva parte delle abitudini chic dei gentiluomini. Si sedeva sul tronetto di velluto e aspettava che ʼo sciuscià gliele facesse brillare. Una piccola consolazione in quegli inverni troppo freddi o quei giorni troppo lunghi.

Mia nonna aveva un carattere molto fiero. Era una donna risoluta, intraprendente, ma anche molto stanca. Lavorava dalla mattina alla sera, di giorno e anche di notte, e quel filobus, che la conduceva al lavoro e la riportava a casa, era forse la sua unica distrazione, una sosta obbligata dalla quale non poteva esimersi. Immagino che da lì lei si soffermasse a osservare qualcosa di diverso dalla sua famiglia; soprattutto la mattina presto, quando rientrava dal suo turno.

Il filobus attraversava il Centro Commerciale e affaristico della città: il Corso Umberto I, che i napoletani chiamavano, e chiamano tuttora “Rettifilo”. Una larga e lunga via dritta, figlia di quella grande manovra urbanistica avviata a Napoli sul finire del 1800 e denominata Risanamento, poi dai napoletani, alla propria maniera, ribattezzata: ʼo sventramento. Opera di bonifica che fece piazza pulita di vicoli e fondachi maleodoranti e malsani... Proprio lungo questa strada, di buon mattino, nonna, facendo ritorno a casa, incontrava la parte operosa della città, impiegati, operai e professionisti, che si fermavano in uno dei tanti bar lì disseminati, a compiere il rito del caffè e della “chiacchiera”.

Nel suo ultimo tratto, il Rettifilo, si animava delle voci provenienti dal vasto mercato del pesce di “sopra le mura” che dalla strada si scorge appena.

Nell’ultimo vicolo, sulla destra, si apprezzavano i richiami striduli e coloriti dei pescivendoli, talmente forti e armoniosi da attirare l’attenzione anche di mia nonna, che, seppur lì fosse nata, ancora ne rimaneva ammaliata.

E così si giungeva a Piazza Garibaldi, il più grande slargo della città, dove si trovavano, e ancora si trovano, la Stazione Ferroviaria Centrale e i capolinea delle corriere che provenivano da tutti i paesi della provincia e dalle altre città del Sud Italia.

Affari commerciali, intrallazzi politici e beghe giudiziarie di tutto il Mezzogiorno, si riversavano e si risolvevano a Napoli.

Si lasciava alle spalle la piazza, mia nonna e, finalmente, arrivava nei luoghi familiari: il Ponte di Casanova, Piazza Nazionale e Via Poggioreale.

«Si scende, signora.»

La nonna era a casa. Un altro lavoro l’attendeva.

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