Kaikeyi. L'evoluzione di una eroina indiana: dal Ramayana ad Amreeta Syam
Rosalba Griesi
A dimostrare la “longevità” e l’attualità del Ramayana, e soprattutto dei suoi personaggi femminili – i più controversi! – presento qui la prima traduzione in lingua italiana del poema di Amreeta Syam, Kaikeyi.[1]
PROLOGO
I
Mai avrei pensato
di accontentarmi
di guardare i miei nipoti
giocare.
Una donna sfiorita
coi capelli grigi
con gli occhi spenti del giovane guizzo
che aggrappata alle mura del palazzo
volge lo sguardo al passato.
[…]
KAIKEYI: LA MOGLIE
[…]
X
I cuori degli uomini
non cambiano mai
e sono anche caparbi.
Mi tenne stretta
tra le sue braccia
come se nulla fosse accaduto
e mi disse
“Non sarei mai
venuto a riprenderti
ma sono felice
che l’abbia fatto mia madre.”
“Gli uomini sono testardi”
Mormorai:
“E Sumitra”? Gli chiesi.
E lui rispose:
“C’è una sola Kaikeyi”
e in quell’attimo
la gelosia sfumò
ma soltanto allora
poiché ero certa
che non mi avrebbe mai abbandonata
apparteneva al mio essere
la respiravo con l’aria.
Per il mio caro marito
un uomo semplice e buono
non fu difficile riconquistarmi
senza proferire bugie o tramare scuse.
“Andremo via insieme per un po’”, disse.
E io sussurrai:
“E Ayodhya”?
Si strinse nelle spalle e rispose
“I confini del regno
sono al sicuro ora
e io amo Kaikeyi
più di Ayodhya.”
Ero immensamente felice.
Ma cosa ne sarebbe stato
di quell’amore
di quella felicità
se avessi preteso
per Ayodhya
un figlio suo?
I cuori degli uomini
non cambiano mai
e sono anche caparbi.
XI
Lenzuola seriche
fruscianti come acque
che balzano tra foreste.
Selve oscure
stillanti di miele purpureo
e verde brillante.
Baciava il sole le chiare colline
nel suo dolce risorgere.
Il crepuscolo
bagnava le pelli
d’oro lucido.
Nell’aria
fresca e fragrante
della notte
risplendeva
la magica luna.
Noi due soli
in quella meravigliosa atmosfera.
Noi due soli
nell’idillio della foresta
immersa nell’intensità
dei colori floreali.
La felicità
di ritrovarci soli negli eremi.
Il cibo e la vita
semplici
ci accolsero.
Noi due soli
ed eravamo appagati.
Poi pensai a Sumitra
la povera e piccola Sumitra
alla sposa trascurata
che ora poteva soltanto accarezzare
china, la pelle
morbida e vellutata
di un cerbiatto.
Pensai
ai dolci e umidi occhi
di Kaushalya
che si voltavano indietro
per guardare, rassegnati, al nostro amore.
Pensai
alla fiera Ayodhya
al regno senza il suo re
e tutto ciò si agitava dentro di me
anche se avevo giurato
di ignorare tutto il resto, lontano da noi.
Vagavamo lieti
parlandoci, per le meraviglie dei boschi.
Ma io ero una regina
e Dasharatha colui che governava -
i doveri incombevano.
Così, a malincuore
decidemmo di ritornare
ad Ayodhya.
XII
Per ben governare
sia il re sia la regina
non possono concedersi
vacanze o pause
occorre un incessante impegno.
Ed ecco che la nostra carrozza
sfrecciava lungo le strade
battute dal sole
in direzione della capitale.
Un messaggero giunse
come vento, al galoppo
e affannato, riferì
che eravamo stati attaccati
dai Rajukas
approfittando dell’assenza di Dasharatha.
Il commento di mio marito
mi sembrò davvero banale
per quel frangente.
“Tesoro”, disse
“Non ho tempo
per accompagnarti a casa.”
XIII
Ci fu battaglia.
I nostri carri
si precipitarono a combatterla.
Il viaggio ormai
era stato interrotto
dall’improvviso evento
che pur ci entusiasmò.
Lottammo con forza
le frecce rigavano l’aria
affilate lance d’argento
la trafiggevano.
I cavalli nitrivano furiosi.
Una spada trapassò
il capo del nostro cocchiere.
Nel turbinio della battaglia
gli occhi di mio marito
incrociarono i miei.
Sulla sua testa vi era
uno schizzo di sangue
e subito presi in mano
le redini.
XIV
La carrozza vacillò
nella confusione
i cavalli s’impennarono
scuotendo le criniere.
Saltai, fulminea
giù dal carro
e mi accorsi
che il bullone della ruota
stava cedendo.
Curvai il mio dito mignolo
e lo rimisi a posto
ma non appena
l’enorme ruota si mosse
il mio dito si fratturò.
E da lontano
una nube di polvere infuriava.
Giungevano i rinforzi
quelli di mio fratello
con i reggimenti
di Kekaya.
XV
Il nemico vacillò
e cominciò a ritirarsi.
Ma una freccia vagante
colpì il petto di Dasharatha
che subito svenne.
Sconvolta, afferrai le redini
del carro, fendendo inconsapevolmente
le linee nemiche.
Il sole mi accendeva il volto
che divampava anche
per le grida di vittoria
che percorrevano il campo di battaglia.
Avevamo vinto!
E sollevata dallo scampato pericolo
sorridevo per liberarmi dalla tensione
dal terrore che avevo provato poc’anzi.
La carrozza sfrecciava
verso Ayodhya.
XVI
Sopravvisse.
Avrei potuto, forse, lasciarlo morire?
Sopravvisse.
Nel suo sguardo
si leggeva un’infinita riconoscenza.
Disse: “Mia regina quello che desideri sarà tuo.”
“Senza alcuna condizione?” Scherzai.
“Nessuna, giuro.” Promise.
“Lascia che diventi anziana e smunta!”
Gli dissi ridendo.
“E quando ti sarai circondato
di uno stuolo di mogli
allora sì, ti chiederò due favori.”
Pose il suo sguardo
sul dito fratturato
curvo ancora
e pareva dire con gli occhi:
“uno stuolo di mogli, mai”.
(Sumitra, ‘la nuova moglie’, intanto
non era stata chiamata affatto.
E di tutto ciò, ne esultavo.)
Il dito mignolo rimase
curvo per sempre.
E il Destino sorrise
silenziosamente al Tempo.
XVII
Cos’è il Fato?
Credete che il destino
decida sulle nostre vite?
Pensate che non abbiamo alcun arbitrio
sulle strade da intraprendere,
sui vicoli angusti da attraversare
sui viottoli dove perdersi?
Il Fato è un pretesto
per gli errori che commettiamo?
Il Fato è una strega macilenta
che sogghigna nel grigiore del tempo.
Manthara credeva in lei
Manthara, mia sorella adottiva
figlia della mia balia.
Fummo allattate allo stesso seno
giocammo insieme gli stessi giochi
ci sposammo lo stesso giorno.
La mia amica intima
la mia ancella fidata.
La gente riteneva che fosse brutta
ma non era vero.
Lei era soltanto alta
e a palazzo la chiamavano “la gobba”
La gente è crudele.
Manthara aveva la pelle d’ebano
Il passo ondeggiante
e occhi accesi d’intelligenza.
Davvero, non ho mai sopportato
la stupidità.
XVIII
I miei sudditi ritenevano
che la regina Kaikeyi
amasse soltanto i gioielli.
Io amavo il bagliore dei colori
le sfumature, fragili come ombre
il freddo fuoco delle pietre (preziose).
Ma non ho mai amato
davvero, in assoluto i gioielli
come i miei sudditi credevano.
(Anni dopo, mi avrebbero ricoperta
di insulti se li avessi preferiti per davvero.
Credo, inoltre
di essere stata sciocca
ad irritarmi con loro
se penso al destino di Sita.
mia nuora.)
La regina Kaushalya era buona
(una parola generica, scontata
con cui non si descrive una persona.)
La regina Sumitra era dimessa
(povera creatura.)
Ma la regina Kaikeyi
la favorita
amante di lustrini e lusinghe
spettegolava dei suoi sudditi.
No, in città, non fui mai
popolare come regina
Ma non amai le pietre (preziose)
come si pensava che fosse.
Amai soltanto mio marito.
Per lui, mi adornavo d’oro e di gioielli.
Volevo essere una regina completa in tutto.
Capite? Si trattava soltanto
di insicurezza.
Mio marito aveva altre due mogli
e nessuna di noi gli aveva dato dei figli.
Io non credevo affatto
alle promesse degli uomini.
Allora, vi chiederete
“Perché mai aggrapparsi
al fascino delle pietre (preziose)?
Così, per disperazione?
Per sentirmi forte e sicura?”
[…]
[1] Amreeta Syam, Kaikeyi, Calcutta, Writers Workshop, 1992. La Syam è una scrittrice e giornalista indiana; si è laureata presso la Jadavpur University nel 1987, con la specializzazione in storia antica dell’India. Un’alteriore sua composizione poetica è il poema Kurukshetra (Calcutta, Writers Workshop, 1991), che narra le vicende del Mahabharata dalla visuale di Draupadi.