IL SOPRALLUOGO | Estratto | Artisti di Borgo
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IL SOPRALLUOGO

Andrea Zavagli

IL SOPRALLUOGO

Si frugò in tasca e ne trasse la vecchia chiave. Aprì solo uno spiraglio del portone perché ancora, a distanza di anni, quella grande casa di pietra lo intimoriva. Temeva in particolar modo i ricordi che certamente lo avrebbero assalito. Non era sicuro che fosse una buona idea metterla in vendita, così come decidere frettolosamente di fare quel sopralluogo, ma era da anni che nessuno ci metteva piede e doveva controllarne lo stato.

Ormai era lì e si sentì ridicolo, immobile su quella soglia logorata dal tempo. Appena entrato richiuse subito la porta alle spalle, come a volersi isolare dal resto del mondo. Nella pallida luce che filtrava dalla lunetta impolverata, lo accolse il vecchio e lungo tappeto dell’ingresso. Pareva indirizzarlo verso la scala che si perdeva nel buio, ma preferì aggirarsi nelle stanze del piano terreno.

La vecchia cucina con il pavimento di graniglia e, in un angolo, la stufa. La sala da pranzo con i vecchi mobili quasi neri. La poltrona Frau dove, accostate le persiane, lo zio dopo pranzo sonnecchiava.

In realtà l’avvocato Antonio era zio di suo padre, ma in famiglia era sempre stato per tutti solo ‘Zio Tonino’.

Nelle stanze si affacciava soltanto, fermandosi sulla soglia. Era a disagio perché pareva quasi che i vecchi mobili lo fissassero indagatori chiedendosi chi mai si fosse permesso di disturbare la loro quiete.

Era vero, salvo qualche breve periodo nell’infanzia, già da adolescente non era più tornato in paese a trascorrere le vacanze, preferendo la Versilia e il suo mare.

Per liberarsi da quella fredda accoglienza aprì i portelloni di legno e si addentrò nel giardino. Percorrerlo non era un’impresa facile per l’alta vegetazione spontanea che ne aveva invaso ogni angolo, ma fu questione di un attimo. La visione dello zio che riempiva l’annaffiatoio nella conca dell’acqua piovana per bagnare i suoi gladioli si fece prepotente e lo costrinse a rientrare in casa. Gli sembrò un rimprovero per come aveva trascurato il giardino e, pur sentendosi davvero in colpa, non riuscì a nascondersi l’uggia di quei silenziosi richiami.

Doveva sbrigarsi a terminare quella visita fastidiosa al più presto, tanto sapeva che non avrebbe trovato niente di diverso da quando, tre anni prima, era venuto a inumare babbo nella cappella di famiglia.

Nessuno se ne era più occupato e quindi, terminato in due balletti il giro di controllo, sarebbe potuto ripartire subito per Firenze.

Salì ai piani superiori aggirandosi tra le camere da letto, lo studio e le altre stanze, ma era tutto cambiato e di ognuna ricordava distintamente la vecchia disposizione, di quando con mamma e sorella trascorreva lì le sue prime vacanze.

Lo studio da avvocato, che in qualche modo gli metteva soggezione, era diventata una cameretta per gli ospiti. La camera da letto dello zio, dove, a volte, condivideva dopo pranzo la pennichella, ora era una accozzaglia di librerie di stile diverso impossibilitate in ogni caso a contenere la massa di libri che si era accumulata in alte e disordinate pile. Sorrise al ricordo di come, a lui decenne, quel corpo sdraiato accanto gli apparisse enorme o come, invece, lo riempisse d’orgoglio leggergli gli articoli di Epoca o gli inserti sulla seconda guerra mondiale.

Zio Tonino, ormai costretto a lasciare la professione per la perdita quasi totale della vista, utilizzava spessi ed antiquati occhialini dalle lenti verdi che lo aiutavano a muoversi con più sicurezza nel giardino assolato. Ora giacevano inutilizzati sul vecchio cassettone.

Squillò il cellulare e l’amico Gianni lo avvertì della imminente nevicata: «Affrettati! Dicono che al passo già sta nevischiando, rischi di rimanere bloccato in paese per qualche giorno!»

«Che dio non voglia! Ho intenzione di tornare di corsa in città. Ormai ho quasi finito, grazie. Scappo subito.»

Salì al secondo piano, dove tutto era stato trasformato, in epoca più recente, da suo padre. Dell’appartamentino che condivideva con zia e cugini, non c’era più traccia se non il piccolo cucinotto. Era sparita la saletta da pranzo con il tavolo ampliabile dove pranzavano l’estate o, a novembre per i morti, si abbuffavano su tortellini in brodo e gli spiedi girati nel camino del pian terreno.

Avvertì malinconia per quei cambiamenti che circoscrivevano il passato ai suoi soli ricordi, sempre più nebulosi e ridotti.

Gli anni in cui era stato davvero felice. Gli anni della scoperta delle cose semplici.

La melma scivolosa del fondo del fiume, il bruciore delle ortiche, la collezione di coleotteri del cugino, la prima e unica trota pescata fortunosamente con una rudimentale canna. E le mucche dagli occhi seri e indagatori sempre impegnate a scacciare con le instancabili code mosche e tafani. Il piccolo mulino con i sacchi infarinati ammucchiati davanti, i rovi di more nei quali era anche riuscito a cadere a capofitto. Le lunghe scarpinate per raggiungere le pozze più profonde dove poter fare il bagno e, dopo, consumare frugali pic-nic.

Si riscosse da quei pensieri quasi con rabbia. Dare tanto valore a memorie così infantili. Che cosa potevano rappresentare rispetto all’adolescenza? Ai motorini, alle prime cotte giovanili, alla scuola e i suoi terribili lunedì che lo vedevano sempre impreparato. Emozioni ben più forti con le quali aveva iniziato a costruire la persona che era adesso. E la vita professionale? L’attività congressuale? Lo sport praticato in forma dilettantistica ma con divertimento e passione? Scese i gradini di pietra serena per tornare al piano terra e, visto che aveva ancora un po’ di tempo prima di fuggire da quel mausoleo, scese anche in cantina. L’unica lampadina nuda creava ombre che si dilatavano sui muri, ma oggi non facevano più paura. Non come allora, quando veniva mandato a prendere la forma di formaggio tenuto al fresco nella gabbia per alimenti.

Risalì in cucina e forse per suggestione avvertì nell’aria il profumo della dispensa dove i formaggi affiancati sulla madia e le mele verdi sui sacchi di iuta erano messi a maturare.

La vista della poltrona con il plaid che zio metteva sulle gambe quando riposava sciolse la resistenza che sin dall’arrivo in paese gli aveva fatto mal digerire quella visita.

Le pantofole di lana a quadretti, chiuse con la zip, che ancora attendevano zio Tonino ai piedi della poltrona, gli dettero quasi una fitta al cuore. Guardò l’orologio e decise che aveva ancora tempo per indossarle e scaldarsi sotto la coperta per dieci minuti. Solo per sfuggire un po’ al freddo asciutto di quella casa disabitata da anni.

Ricontrollò mentalmente la tabella di marcia e concluse di avere tutto il tempo prima di ripartire velocemente per tornare nella sua Firenze. Così più viva, così più reale; dove non ci voleva lo ‘zi prete’ per andare a letto, dove non servivano pesanti coltroni per sopravvivere la notte.

Dove, però, non c’era in sottofondo il fruscio del fiume che conciliava il sonno e lo riappacificava con la casa della sua infanzia. Si assopì sereno.

Fuori, in silenzio, grossi fiocchi di neve avevano cominciato a cadere ricoprendo velocemente case, alberi, strade e isolando Palazzuolo dal mondo.

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