I silenzi di Roma - La prima indagine dell'ispettore Proietti | Estratto | Artisti di Borgo
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I silenzi di Roma - La prima indagine dell'ispettore Proietti

Luana Troncanetti

I - Fuochi d’artificio

 

Il dolore ti infila in una pelle diversa, ti riveste di volti sconosciuti, scolpisce lineamenti estranei finché non ti smarrisci in un’immagine oscura. Diventi così un’ombra, qualcosa di mostruoso che ti fissa al di là dello specchio. Segui le pieghe della tua nuova faccia con le dita appena tremanti, senza porti domande.

A questo ti porta il dolore.

Devi provarne molto, ora. Tutto il dolore possibile, quello che sega in due il respiro e ti fa implorare la morte. Lo senti? Lo senti quanto fa male, bastardo?

L’ombra incide l’osso con ferocia, le cesoie potano ritagli di cattiveria. Non distingue più la sua malvagità da quella della carne viva che sta torturando, è colpa del dolore di entrambi. Preme con più decisione e l’indice salta via, con il pollice è stato meno complicato. Fuochi d’artificio densi di rosso lo sparano in alto per qualche secondo. L’attimo di festa muore subito sul pavimento ma ci sono altre dita, altra sofferenza aspetta entrambi. Non ha fretta, quel dolore, ama andare in scena adagio. È una primadonna che esce per ultima sul palcoscenico, così l’attesa sarà più dolce. Gli applausi più calorosi.

L’ombra ammira compiaciuta lo spettacolo, sembra un giardiniere che sfronda rami secchi o cerca equilibrio nei tagli di una siepe. Il bastardo piange, instupidito di terrore, supplica pietà in grida confuse che diventano ovatta nel bavaglio e piscio nei pantaloni.

Il whisky le aggredisce la gola, brucia in una pigra scia di calore e poi scivola dritto nello stomaco. La bottiglia è quasi vuota. Ci vuole alcool per ardere la mostruosità e alimentare il coraggio. Alcool, per ripulire quel marcio e arrestare una fine troppo precoce.

L’ombra versa il liquore sui moncherini, un urlo debole affianca il suo sorriso. Afferra il lanciafiamme dal tavolo degli attrezzi. Appicca il fuoco con cautela, nei suoi occhi la scintilla di un bimbo sorpreso. Il porco è scosso da un tremito convulso, le palpebre rovesciate all’indietro, le gambe impazzite ballano senza via di fuga.

Dolore.

Una falange alla volta, senza nessuna urgenza. Fiotti di sangue e poi fuoco perché la festa non finisca troppo presto.

La luna china la testa per infilarsi nel seminterrato. É abituata ai fuochi d’artificio, il male passeggia sotto di lei ogni notte. Fissa quell’anima intenta a uccidere, ne è affascinata. Non confonde la sua azione con la barbarie, sente una pena insostenibile alleggerirsi a ogni colpo di cesoia. Ha appena visto un barbone ammazzato a calci per gioco e una donna stuprata da un branco di animali; assistere a un atto come quello, invece, è una rarità. Vuole restare tutto il tempo a tenerle compagnia. Se lo merita.

Il pezzo di carne non si lamenta più. È solo svenuto, non ha il permesso di morire subito.

Decido io quando potrai crepare. Io.

Freddo.

L’ombra sta battendo forte i denti. È la stanchezza, forse. Paura no, adesso non è lei quella spaventata. Spalanca l’armadietto dei liquori, la sua vista è tornata di nuovo nitida. Ha bisogno di altro whisky per appannare la coscienza.

Mancano soltanto due dita.

Peccato.

Se le gusta con calma. Il maiale è rinvenuto, può godersi ancora la sua sofferenza. L’ultima falange schizza via, lo scrocchio dell’osso spezzato non è più musica adesso. È fine del concerto.

Riflette. Manca qualcosa, l’opera è incompleta. Cerca una sega, deve essercene una da qualche parte.

Sì, eccola. Eccola qui. È perfetta, sì. Proprio quella che usi per i tuoi capolavori, porco.

Gli slaccia in fretta i pantaloni, soffoca un conato di vomito. La puzza di urina si mescola a quella dolciastra del sangue. Amputa l’ultimo pezzo di carne, il più schifoso. Deve trovargli la giusta collocazione. Ondeggia sul suo fantoccio ormai a brandelli, ubriaca di una vendetta che la rende assassina. Afferra quell’ultima porzione di verme, la barriera dei guanti non vince il disgusto. Strappa via il bavaglio, spalanca la bocca dell’uomo e preme con forza. Deve ingoiarlo tutto, riempirsi di sé fino alla gola. Nessuna pietà, lui non ne ha avuta.

Stacca con calma dai cavalletti i suoi quadri, splendidi dipinti partoriti da mani ormai a pezzi. Non potranno più creare meraviglia, stupore né applausi, le sue dita da artista. Non potranno più generare pena, chissà quante altre volte hanno offeso innocenti con illusioni di grazia aggrappate alla cornice. Oltre la tela, il terrore.

Li osserva un attimo, quei bellissimi quadri puri nel tratto, perfetti nei colori. Le spiace che si sporchino. Non hanno alcuna colpa, loro. Li dispone per terra con deferenza, ammira in lacrime l’ultimo sfondo a quella notte dannata.

L’opera non è ancora finita. Afferra un grosso coltello, incide in profondità i polsi dell’uomo. Tendini e muscoli si arrendono subito come soldati senza coraggio. Il sangue si riversa sulle tele, acceca due amanti che si baciano con passione, scivola sul volto pallido di un angelo, accarezza i glutei di un giovane nudo che la fissa voltato di tre quarti.

Il coltello è un movimento autonomo, la mano si limita ad accompagnare la sua furia. Tagli, ovunque. In ogni centimetro di quel corpo lurido.

Nausea.

L’ombra affoga nel bisogno d’aria. Si blocca per riprendere fiato e vede, finalmente, in cosa l’ha trasformata il dolore.

Cristo, cosa ho fatto! Cosa cazzo ho fatto?

Nulla, in confronto a quello che ha fatto lui. Nulla, però adesso sta dando di stomaco anche le budella. Il volto dell’angelo è lordo di vomito e rimprovero. Non doveva finire così. Non doveva neppure cominciare, ma a dare inizio all’orrore è stato quel pezzo di carne avariata. Certe cose l’angelo non le sa.

Scorge un mazzo di carte su un tavolinetto, le passa in rassegna fin quando non trova quella che le interessa. La estrae e la lancia nel fiume scarlatto ai suoi piedi, sfila dal collo il grembiule di plastica e i guanti. Cambia le scarpe e getta quelle inzuppate di sangue in una sacca assieme alle bottiglie vuote di whisky, al cellulare e al tablet del maiale. Controlla di non essersi sporcata troppo. Soltanto una macchia sul bordo dei jeans ma è ancora notte fonda, nessuno se ne accorgerà.

La luna torna svelta al suo posto, poi si tinge di rosso per rendere omaggio all’ombra. Al contrario dell’angelo ha capito, lei, che il vero assassino è quello massacrato sul tavolo.

 

XVII - Coraggio

 

Roma non la capisci se la respiri brevemente.

Non la capiscono i turisti, la gente di passaggio. Non la capiscono neppure certi Romani, quelli che la respirano a fatica. Perché lei è satura di narcisismo, sicura di sé come una splendida cinquantenne che sa di essere ancora sexy da morire. Ti mostra le unghie scrostate con noncuranza, neanche fossero ancora laccate dei giorni perfetti della sua gioventù. Ti zebra la faccia di graffi, li accogli come se fossero carezze.

Roma è un’eterna, superba e immobile signora con le calze smagliate e le tette ancora sode. Ostenta quelle, certa che non ti accorgerai di quegli strappi nel nylon. Si diverte a complicare l’amore, ti mette alla prova ubriacandoti di meraviglia dolente, dell’ipnotico scorrere di un fiume fatto di miele, al tramonto. Non la vedi la melma. Te ne accorgi dopo, quando sfodera i suoi difetti e devi amarli. Anche quelli, soprattutto quelli. Senza fiatare, senza lamentarti.

Roma è una strega riassunta in un caustico ma chi te l’ha fatto fa’ de innamoratte de me? Io so’ fatta così, e che nun lo sapevi? che esplode in una risata a gola aperta fra denti di marmo e voce arrochita di smog. È spietata, sarcastica e bella. Bella che non puoi fare a meno di adorarla.

É la follia del lungotevere nei fine settimana, quando quelli ormai vecchi per la discoteca si rintanano nel loro quartiere sconfitti dalla sua presunzione. La sua indolenza penetra nelle ossa dei Romani. Li infetta, li contamina, li fascia e li reclude. Roma allontana i più deboli, tanto lo sa che troveranno comunque la forza di amarla. Il suo cuore è scandito dal battito scomposto di una belva che nessun sindaco è mai riuscito a domare. Devi saperla respirare, quella gatta feroce appisolata all’ombra del Colosseo. Altrimenti ti soffoca.

Ernesto la respira a lungo, da sempre. Ne percorre i fianchi ogni giorno in macchina, si infila nei suoi vicoli più segreti, spesso nel suo cuore, e lei lo lascia fare. Si gode velocemente le sue carezze, insieme a quelle dei suoi tanti amanti. Le procurano orgasmi distratti da altre mani. Troppe.

Ernesto adora gli angoli. Non sono soltanto gelida geometria. Alcuni circoscrivono brividi e bellezza, basta scoprire quali. Gli angoli di Trastevere, per esempio. Ce ne sono certi che rilasciano musica tutte le volte in cui ci passi davanti.

L’ocra sbiadita dei palazzi medievali è un pentagramma, note il ticchettio incerto di passi sui sampietrini, musica la risata irrefrenabile di Nannarella che galleggia ancora fra i sapori delle vecchie trattorie. Concerto i sonetti di Trilussa, l’unico poeta che abbia mai conquistato il cuore di un ottuso gelataio e di riflesso anche quello di Ernesto.

Musica persino le battute truci dei camerieri di Cencio la Parolaccia, per addolcirle un po’ basta il profumo dei vasi in bilico sulle ringhiere sverniciate; melodia l’incedere furioso della carrozza di Donna Olimpia, quelle notti in cui scappa di nuovo da Ponte Sisto per rifugiarsi a Villa Pamphili con il suo carico tintinnante di monete d’oro e avidità.

Il taxi guadagna spazio in un labirinto di viottoli e poi si infila in Piazza Santa Maria in Trastevere, quella che di notte è colma di ciancicata umanità, di turisti frastornati dal casino dei coatti in trasferta al centro e di pisciate. È proprio in quella piazza che Ernesto ha accompagnato la donna che ha fatto l’amore con gli occhi nel suo taxi qualche giorno fa. Quella che ha afferrato per il bavero lo scrittore e l’ha baciato, prima che un treno diretto chissà dove glielo portasse via.

Quella che adesso ha lo sguardo incollato al pc. Sta leggendo in anteprima esclusiva il suo nuovo romanzo - così le ha fatto credere lui - e non sa che, in quello stesso istante, almeno dieci paia d’occhi scorrono le stesse righe. Appartengono alla cerchia di eletti che testano i capolavori di quel genio prima che vengano pubblicati. È una prassi che consente al grande scrittore di raccogliere consigli, impressioni e soprattutto complimenti in anticipo sull’uscita in libreria.

Ha aperto il file tremante di gioia, sorridendo per quel privilegio. Legge parole che le infiammano il cuore di orgoglio e di pena. Sarà l’ennesimo successo, è evidente già dalle prime pagine. A ogni nuovo capitolo sente che quell’embrione d’amore finirà abortito dalla distanza e dai troppi impegni di quell’uomo. È inutile chiedergli una pausa da se stesso per stare con lei un giorno, un solo benedetto giorno per vedersi come accadeva in passato, quando erano soltanto amici e lui non era ancora così famoso.

Ore interminabili a parlare. Al telefono, in chat, davanti a un caffè quando lui capitava a Roma. Parlare di tutto. Di scrittura, di libri, del cielo che quel giorno sembrava più blu, dei figli, del sole che a Milano non c’è mai, della cioccolata fondente che è buona in modo violento, del sorriso splendido di quella minuscola donna, delle vacanze sognate da tempo, di cosa avrebbero voluto diventare da grandi.

Un solo giorno. Le basterebbe per contenerlo fra le braccia una vita intera, per fargli annusare corpo e cuore, per passeggiare sulla sua pelle semmai troverà il coraggio di farci l’amore. Basterebbe un giorno per frenare quella corsa maledetta, soffermarsi sulla dolcezza dei suoi occhi spalancati su pagine che le strappano via tenerezza parola dopo parola. Occhi indeboliti da troppa solitudine, fanali che lampeggiano dello stesso disperato colore di quelli di Claudia.

Nocciola.

Una sfumatura calda che continua a incendiargli i sensi. È da stamattina che Ernesto ci pensa, da quando il lungotevere gli ha ricordato che la vita è piena di colori. Lui non se li può permettere i colori, così come l’anziana seduta sul sedile posteriore non può permettersi i soldi della corsa. Se ne accorge con poco quando un cliente non è abituato a prendere il taxi. Lo capisce dallo sguardo incollato al tassametro e dal sospiro che parte dal sedile posteriore tutte le volte in cui un semaforo rosso fa lievitare il conto.

La donna sistema con grazia una ciocca canuta, figlia di una vertigine di capelli piazzata sulla sommità del capo. È un fastidioso sipario sugli occhi, la sua tortura da quando ha chinato per la prima volta la testa su un abbecedario. La indispettisce anche adesso, mentre armeggia preoccupata nella borsa.

Le ci vorrà un bel po’ prima di trovare quello che cerca. Succede sempre così agli ansiosi, ai distratti e ai vecchi. Da quel piccolo caos salta fuori un fazzoletto intriso di Violetta di Parma, quella che aggiungeva profumo ai capelli di sua madre. Di lei ricorda il suo odore e poco più, è passato troppo tempo dall’ultima volta in cui l’ha tenuta per mano. Poi ci sono le pasticche per la pressione e le caramelle al miele, un pettine di tartaruga e qualche forcina, un tubetto di rosso discreto per labbra, i disegni impiastrati di marmellata del suo nipotino più grande, una vecchia prescrizione del medico, un portafotografie con tre faccine sdentate e lo spazio per aggiungere un seguito.

Avvolto in un foulard di poliestere, uno di quegli straccetti che si acquistano a pochi euro sulle bancarelle, la donna ripesca un borsellino con la chiusura a scatto. Conta e riconta i soldi, temendo che non possano bastare, con le mani leggermente tremanti e gli occhi imbarazzati. Magari ha preso il taxi sfinita dalle attese eterne di un autobus, di quelli che arrivano a destinazione con uno sbuffo svogliato, senza scusarsi per il ritardo, neanche fosse un ovvio fuori busta da pagare soltanto perché hai il privilegio di vivere a Roma. La donna conta e riconta, senza mai sollevare lo sguardo se non per controllare quanto sarà costretta a spendere.

Viale di Trastevere è intasato, il traffico scorre più a rilento del solito, l’angoscia discreta della donna si alimenta nel silenzio. Sistema meglio gli occhiali per dare un’altra sbirciata al tassametro, è una vita che dovrebbe andare dall’oculista ma sono lussi che una come lei non può permettersi. Le basterebbe dare una lustratina per vedere il mondo con più chiarezza: ha sempre avuto il vizio di sfilarsi gli occhiali afferrandoli per le lenti, mai dalle stanghette.

Un’immagine appannata registra che sono già arrivati a tredici euro. Tredici euro, farfuglia a voce più alta del dovuto, tredici euro... Dovrà rinunciare al modesto sfarzo di un cinema insieme a Clara. È una vecchia brontolona sola come lei da tempo, una di quelle compagnie che avrebbe voluto godersi fin da giovane e invece no. La loro è una recente amicizia, eppure si amano di un affetto burbero che le costringe spesso a scambiarsi una pena comune negli occhi: la paura di sopravvivere all’altra.

I numeri sul display continuano ad accavallarsi, la donna prega Dio che la piantino di rincorrersi in una salita che le costerà gocce essenziali della sua pensione.

«Vado a conoscere un fiore appena nato, sa?» taglia così il silenzio nel taxi per distrarsi.

«Un fiore, signora?»

«La chiameranno Rosa, proprio come me. È un nome troppo anziano per una bambina, forse era già vecchio quando sono nata io. Però mia figlia ha insistito tanto. La chiameranno come me.»

«È la sua prima nipotina?»

«No, è la quarta. Ma non sono tutti di mia figlia, eh! Gli altri due nipoti me li ha regalati suo fratello. E chi se li può permettere quattro figli al giorno d’oggi?»

Sorride amaramente, Ernesto. Già, chi?

«Però mica ci si abitua mai a un nipote, sa? Lei si stancherebbe di vedere per la quarta volta il sole?»

«No, signora. Certo che no.»

«È nata da neppure un’ora, la mia piccola Rosa. Me la volevano portare a casa, una volta uscita dall’ospedale. Ma io non potevo aspettare due giorni, scherziamo? Finché mi reggono le gambe, le cose me le faccio da sola. Se lavoro, posso anche andare io da mia nipote.»

«Lei lavora... ancora?» chiede Ernesto, pentendosi per quel tono di sorpresa nella voce. L’anziana gli concede un sorriso indulgente, il perdono che si regala ai bimbi quando li becchi col muso sporco di cioccolata e giurano che no, al barattolo della Nutella non si sono neppure avvicinati.

«Io ci suonavo l’arpa con queste mani, da ragazza. Adesso le uso per stirare i panni a casa di una signora. Sono pochi spiccioli, non creda. Però, con la reversibilità di mio marito, a fine mese, come ci arrivo? Prendo la minima, lui era un musicista come me. Non ci si campa con l’arte, così ci dicevano tutti, eppure siamo riusciti a tirarci su due figli.»

Non ci si campa con l’arte, Ernesto lo conosce fin troppo bene questo discorso. Sta per replicare qualcosa, ma la donna lo precede.

«Mio padre non voleva…» e appende il ricordo a una lunga pausa.

«Cosa?»

«Il conservatorio, diceva che erano solo sciocchezze. Ma non gli ho dato retta, sa? Ci sono andata eccome, litigavamo tutti i giorni per questo. Ci sono andata, sì. E la sera facevo la cameriera per mantenermi agli studi e l’amore con il mio fidanzato per mantenermi felice, prima di sposarmelo. Più di cinquant’anni fa, ragazzo mio! Ma lei se lo immagina che scandalo?» esplode con divertimento, dimenticandosi del tassametro.

Ernesto resta muto, volge un attimo lo sguardo all’indietro sul sedile posteriore e altrove. Un dieci dietro l’altro sulle pagelle, l’inizio della sua fine. Sorride alla donna, poi affonda di nuovo gli occhi sulla strada.

Quindici minuti dopo arrivano a destinazione, l’ospedale Nuovo Regina Margherita è proprio dall’altra parte del marciapiede. Ernesto arrotonda per difetto il prezzo della corsa; l’anziana lo fissa con occhi materni, la sua riconoscenza si converte un attimo dopo in un sereno lampo di orgoglio.

«No, la ringrazio. Lei è un bravo giovanotto, dico sul serio. Ma la pago quanto devo. É giusto così. L’unico lusso dei poveri è potersi concedere la dignità, di tanto in tanto. Quando possono, quando ce la fanno. Un cinema ogni trenta giorni, per esempio. Questo mese salta, ma non fa niente.»

E lo saluta così, con gli occhi allegri dietro le lenti sporche di dita e un lieve sentore di Violetta di Parma alle spalle.

Il tassista osserva la donna attraversare le strisce a testa alta, già diluita nella folla nel suo modesto abito scuro a pois, la borsetta stretta al petto con dentro poco valore, i passi lenti ma coraggiosi mentre va a conoscere il suo quarto sole.

A me il coraggio è sempre mancato. Sempre. Così pensa Ernesto mentre azzera con rabbia il tassametro e afferra il cellulare. Deve andare a riprendere sua moglie. È uscita con l’unica amica che riesce a stanarla da casa ogni tanto. Margherita gli ha appena inviato un whatsapp: Simona non può riaccompagnarmi a casa, la macchina non parte. Sto male. Per favore, vieni tu. Subito. Sto troppo male.

Impreca, chiama immediatamente Claudia e la sua ansia cresce insieme al numero degli squilli a vuoto. Al decimo, risponde la madre della ragazza. Lo rassicura. È in casa, solo che adesso sta facendo la doccia. Sì, probabilmente può occuparsi di Margherita per qualche ora finché lui non termina il turno di lavoro. Sì, replica con dolcezza la donna, anche se vorrebbe dirgli che Claudia è andata a divertirsi con gli amici. Che deve piantarla di approfittarsi di lei. Smettere di succhiarle la vita. Che sta perdendo troppo peso. Che.

Sì, certo. Lo farà richiamare il prima possibile. Ernesto ringrazia, telefona a Margherita per tranquillizzarla. Fissa, schifato, il vigliacco riflesso nel retrovisore.

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