Echi d'Inverna e di Tramontana | Estratto | Artisti di Borgo
top of page

Torna alla Scheda

Echi d'Inverna e di Tramontana

Roberta Plebani

Non è la notte il regno dei fantasmi, ma il giorno, quel momento in cui con uno scarto di preveggenza infinitesimale, passato e presente sembrano allinearsi e noi confondiamo chi siamo con la sintesi di chi siamo stati Così mi succede, guardando il lago dall’alto o sorseggiando un calice di vino, osservando il volo sincopato e incerto di una farfalla o scalando le cime più alte dei monti, di sentirmi abitata da qualcuno che ancor prima di me, abbia già amato queste montagne, percorso questi sentieri e bevuto questo stesso vino, qualcuno che come me, abbia anche perso la testa per amore.

Un tempo non conoscevo i loro volti e neppure le loro storie. Allora, con la stessa ostinazione di un segugio, ho percorso a ritroso le pagine del tempo per ritrovare tutti quanti i miei fantasmi: Greta e Mujo, Annetta, Alessandro, Graziano e Franco, Beniamino e Benedetta, Fabrizio e Maddalena, Esteban, mio padre, e Bianca, mia madre.

Essi, come pure coloro che qui non ho voluto menzionare a causa della loro grettezza o della loro ipocrisia, costituiscono la mia storia, i miei limiti e le mie opportunità. Perché siamo luce e ombra, siamo gioia e dolore, siamo odio e amore. E il punto di congiunzione o disgiunzione, l’intensità o l’inconsistenza che li separa o li accomuna, determinano il nostro destino o ci inducono a modificarlo.

E’ che a certe conquiste bisogna arrivarci senza fretta, altrimenti, come sostiene la saggezza popolare, si bruciano le tappe. Così ho creduto che gli accadimenti della mia infanzia, le mancanze e i ritrovamenti, mi avessero sospinto in avanti, ben oltre il livello di maturità dei miei coetanei, ma non è stato così; perché l’accelerazione forzata danneggia i corpi, mentre il tempo, nel suo intercedere lento, risana le ferite, edulcora i ricordi e smorza i dolori. Guai a noi se non avessimo dalla nostra parte il tempo.

Da piccola, confondevo le partenze con i ritorni e le persone con i personaggi, non sapendo distinguere le storie vere da quelle fantastiche. Ecco il motivo per cui non fu mai facile lasciare quel paese, così vicino al cielo, in cui vivevano mia madre e mia nonna, con pochi altri abitanti, per tornare con mio padre a Venezia.

Quelle stradine strette, silenziose e solitarie, dove tra una pietra lastricata e l’altra, in primavera spuntavano erbe e fiori colorati, turbinavano foglie secche in autunno e si stratificava la neve in inverno, mi restavano impresse negli occhi e nel cuore. Questo il motivo per cui, con l’ostinazione che è caratteristica dei bambini, cercavo di rintracciarne, perlomeno i colori, nelle acque verdi della laguna, nel grigio dei suoi palazzi, nell’azzurro del cielo. Ma non era la stessa cosa. A vanificare quel disperato confronto, la folla quotidiana nelle piazze, tra le calle e sui vaporetti, assente nel paese a pochi passi dal cielo. Ogni giorno, dunque, il mio pensiero tornava là e, puntualmente, partiva un conto dei giorni alla rovescia.

Avevo quattro anni quando salii ad Oggiogno per la prima volta. – Allora, vuoi conoscere la tua mamma? Mi aveva chiesto qualche settimana prima mio padre, con il quale vivevo fin dalla nascita.

Sapevo di avere una mamma, tutti ce l’hanno. Ma da principio, il rimpianto e l’amore che mio padre non riusciva a dissimulare quando si soffermava a parlare di lei, mi indussero a pensare che fosse volata in cielo. Finché una sera, costretto all’ angolo dalle mie domande sempre più pressanti, trattenendo a stento le lacrime, mi disse che no, non era morta: era malata ed io dovevo solo attendere che guarisse per poterla conoscere. Da quel giorno non gli diedi un solo attimo di tregua. – E ‘bella papà?

– Bellissima! Mi rispondeva. Ed io intuivo che in quel preciso istante, nella sua mente, lei era lì accanto a noi.

-E dai, papà, dimmi com’è…

Allora lui smetteva di suonare, di camminare o di fare qualsiasi altra cosa stesse facendo in quell’istante, e accovacciandosi di fronte a me, in modo tale che i nostri sguardi si trovassero allo stesso livello, l’uno di fronte all’altra, mi diceva: - E’ la mamma più bella del mondo. Non è molto alta, ma è ben proporzionata, ha i capelli biondi, raccolti in una morbida treccia e gli occhi di un colore indefinito, tra il verde e l’azzurro, come quella linea che vedi laggiù, dove la laguna si confonde con il mare aperto. Talvolta, quando è distratta o sovrappensiero, le sue labbra carnose, lievemente piegate all’ingiù, danno quasi l’impressione che sia altrove, ma non si tratta che di attimi, perché lei non sa stare a lungo senza sorridere. E il suo sorriso, credimi, dissolve le ombre e rischiara gli angoli più bui della mente.

Io continuavo a fare le stesse domande e lui, compiaciuto, continuava a dare le stesse risposte. Finché una sera estrasse, tra i tanti libri del suo studio, un album con la copertina di cuoio e mi mostrò le foto del loro matrimonio

La foto più bella era quella in cui comparivano soltanto loro due: lei giovanissima e sorridente, nel suo lungo abito di pizzo bianco, coi fiori tra i capelli e un enorme mazzo di peonie come bouquet, lui, emozionatissimo, giovane ed elegante, nel suo abito da cerimonia scuro.

Sorrideva e la stringeva a sé, con la stessa passione, la stessa delicatezza e lo stesso rispetto con cui ogni giorno, ancora oggi, si accinge a suonare il suo violoncello.

Nelle altre foto, i nonni Alessandro ed Ester Molinari che vivevano con noi a Venezia, poi una bella donna bionda, elegantemente vestita, nonna Benedetta, accanto ai suoi fratelli, Alberto e Graziano, con le loro mogli e i loro figli, infine tutti gli abitanti del paese. A seguire, immagini della piccola chiesa in cui fu celebrato il matrimonio e del pranzo all’aperto: sotto una magnolia secolare, i tavoli con le tovaglie bianche, disposti a ferro di cavallo, e tutto intorno alcune peonie bianche recise, nei loro alti vasi di vetro e molti fiori variopinti, nel vasto e rigoglioso giardino accanto alla casa.

La primavera dopo quella prima rivelazione riguardo alla mamma, il papà mi portò con lui, durante uno dei suoi innumerevoli viaggi. Partimmo in treno, dalla stazione di Venezia. Arrivati a Milano, dalla Stazione Centrale, con il tram, raggiungemmo la Stazione Nord per prendere un altro treno che ci portò a Laveno. Su un grande battello a pale, della Navigazione del lago Maggiore, raggiungemmo Cannero, un paese dal microclima rivierasco, dove crescono gli agrumi. Lì cominciò la salita a piedi, di una ventina di minuti circa, verso Oggiogno, lungo una vecchia mulattiera in mezzo al bosco. Non c’erano salite simili a Venezia, ma non osai lamentarmi nemmeno una volta perché la posta in palio, come papà mi aveva finalmente rivelato, era davvero molto alta. Di tanto in tanto ci fermavamo, per alleggerirci dagli indumenti pesanti che indossavamo, poi proseguivamo, sostenuti dall’emozione e sospinti dal desiderio di incontrare Bianca.

Dopo una svolta, l’abitato di Oggiogno è segnalato dalla presenza delle mura del suo piccolo cimitero circondato da austere cappelle, al suo interno un vialetto, delimitato da due siepi parallele di bosso, a separare le più modeste tombe. Dì lì in poi, la mulattiera in sasso, ornata da tappeti d’erba, costeggiando le mura grondanti di edera della Villa Rossa, assume caratteristiche meno boschive. Quel giorno, in mezzo ai tappeti d’erba, spiccavano due fitti filari di primule gialle.

Poi la vidi, di vedetta lassù, sotto il vecchio castagno, vicino al lavatoio. Indossava delle scarpe basse, una gonna svasata e lunga fin sotto al ginocchio, di colore grigio chiaro, una camicetta a quadretti grigi e bianchi, e un golfino aderente, dello stesso colore della gonna. La lunga treccia bionda, di cui mi aveva parlato tante volte mio padre, che le scendeva da un lato. Accanto a lei quasi a sostenerla, la nonna, altrettanto bella ed elegante nella sua gonna stretta e lunga fino al ginocchio, dello stesso blu del maglioncino. Corsi da lei e ci abbracciammo strette. Nonostante continuasse ad asciugarsi gli occhi nel polsino del golfino, io sentivo le sue lacrime rigare le mie braccia di bambina. Ci scostammo un istante, per riconoscerci nell’immagine ideale dell’altra che ognuna di noi aveva cercato di creare nella propria mente, e ci riconoscemmo. Arrivò anche papà, accaldato e con il fiatone grosso; lui disse, per la salita, io pensai per l’emozione di rivedere Bianca. Entrambi avevano qualcosa da farsi perdonare e da perdonare. Lo fecero in silenzio, guardandosi negli occhi. Poi anche loro si abbracciarono e piansero e risero, di dolore e di felicità.

Quella sera la mamma si coricò presto, la terapia farmacologica cui era stata sottoposta fin dalla mia nascita, in quell’occasione era stata leggermente modificata in eccesso, affinché riuscisse a sostenere la forte emozione di rivedere me e mio padre, senza le conseguenze devastanti della sua malattia.

Quella prima settimana si rivelò essere una lunga festa per il nostro ritorno e per la conferma quotidiana del miglioramento delle condizioni di salute della mamma. In quell’occasione conobbi anche gli zii e mio cugino Fabrizio, il primo laureato della famiglia Cerutti, psicologo, presso l’Istituto Medico Psicopedagogico di Cannobio, altrimenti conosciuto come “Il Preventorio”.

Io mi affezionai a tutti loro, soprattutto a Fabrizio che saliva spesso a trovarmi. Con lui facevo lunghe passeggiate, talvolta in direzione di Viggiona e Trarego, altre volte più su, fino alla cima del monte Morissolo, a cercare i resti dell’antica Linea Cadorna: trincee, cucine ed ospedali da campo costruiti durante la Prima guerra mondiale per volere dell’omonimo generale, ma di fatto inutilizzati, perché la prevista invasione austriaca avvenne da tutt’altra parte, nel Triveneto.

Durante quelle passeggiate mi parlava di Giovanni e Tommaso, i suoi figli, e degli altri “suoi bambini” quelli dell’Istituto; dei loro drammi familiari e degli abusi subiti, edulcorandone i fatti e ridimensionandone le conseguenze, per non impressionare me, e al tempo stesso, per proteggere loro, nel tentativo di scoprire se anch’io non fossi stata, in qualche modo segnata, dalla lontananza di Bianca.

Fu allora che compresi che anch’io come lui, da grande, avrei conseguito una laurea in psicologia.

La formattazione di questa pagina è a cura dell'Artista dell'Opera

bottom of page