C'era una volta il Provolon del Monaco di Arola in Vico Equense | Estratto | Artisti di Borgo
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C'era una volta il Provolon del Monaco di Arola in Vico Equense

Pierpaolo de' GENNARO e Pierpaolo de' GENNARO

Una Favola per Una romanza terminata nel mille seicento uno la costruzione, i monaci, guidati dal prior Romualdo, iniziano la propria missione con il viver di preghiera e di lavoro, perché favoriti dalla grande riserva forestale di cui son maestri. Dal mil duecento settantotto, infatti, seguono il Codice Manutentivo sulla Forestazione, che essi proprio predisposero, primo qui in Europa. Per tal motivo, qual conoscitori capillari dell’erbe pullulanti nei nostri sottoboschi, alacremente si diedero a confezionare eccelsi prodotti di cosmesi, assai profumi, tisane d’ogni tipo, liquorini di lauro, di mortella ed altre piante, così anche olio davvero sopraffino: con l’esser questa, cantata dal Regio, la terra dove Athena ebbe a dar forma nientedimeno che alla prima oliva. Ma, trovan, viceversa, nella gente del posto un muro nel fare profitto della grande esperienza dei più anziani monaci, nel produrre buona birra. Il motivo è che tutti gli abitanti, dal più anziano al più giovane, sia maschi, che femmine indistintamente in uno, avesser sacro l’uso d’ogni erbaggio, sia se selvaggio, sia se seminato. Vi sembra una pazzia? No! Cari amici che non siete oriundi. È vero, è sacrosantamente vero. In questo bel Paradiso Terrestre, l’erba veniva usata innanzitutto per dare da mangiare alle vitelle, che coccolate come principesse venivano allevate nelle stalle, 18 per toglier loro pure la fatica di dover pascolare avanti e indietro. Appena, quindi, i monaci a provare iniziarono a chiedere orzo in cambio delle loro stupende produzioni, per fare di birra più che eccezionale, tutti si opposero, quasi indignati. Non è un fatto da poco a giudicare il malumore creatosi di fatto. Ciò inficiava il buon esito del sogno di vendere la birra sul mercato della vicina Capitale, dove c’erano gli stranieri marinai intorno al Porto che ne andavan matti, tanto da assicurar lauti guadagni da conferire all’Ordine per fare del bene ai poverelli e issar degli altri Conventi ovunque. Romualdo, disperato, quella sera sotto Natale, nell’aprire bocca nel quotidiano Capitolo, sbotta in un’arringa solenne, con cui spiega esplicitamente le ragioni che lo facevan preoccupare assai e che gli avevano imposto di dare le dimissioni lì, seduta stante, per inficiare il rischio di dovere chiudere già l’indomani il Convento. ad asta pIana parla romUaldo: <> Il Fratello antonIo <> romUaldo <> marIna d’ÆqUa Il giorno dopo per Alberi scende nel rivo d’Arco col passare prima per Fornacelle e Pacognano pure ed indi giungere sopra alla spiaggia che era ancora buio pesto. Fa quella strada perchè gli hanno detto vi sia giù in fondo la grotta chiamata del Diavolo, perciò vuol benedire quel posto tanto tanto frequentato perchè vi sgorgano acque deliziose, ma per grazia di Dio e della lucetta non fa né brutti incontri e neanche trova Belzebù a attenderlo con il forcone. Un luogo oscuro dove occhi scavati in viva roccia, percolano d’acqua per misteriosi cunicoli forse testimonianze del culto Sireno Taleboo, quali nidi delle alate rapaci dee del primordiale Olimpo. Anzi, pensa persino d’essere solo, invece un po’ dovunque luccichii come di lucciole scorge nel buio, lucignoli di contadini e gente con asinelli o a piedi in quei budelli di viuzze strette e ripide orientate a andar su e giù di qua e di là del rivo per raggiungere il posto di lavoro. Fatto sta che è alla foce in una oretta e è lì che vede il primo pescatore, 22 almeno quello pensava che fosse.

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