Respiro
IRENE GIANCRISTOFARO
Respiro
Il giorno in cui Giulia si presentò per la prima volta dal dottor N. era un giovedì di metà luglio, chiuso nel ventre di un’estate afosa in cui i venti di scirocco invitavano a dosare accuratamente i gesti e le parole. Con un moto di ribellione Giulia decise di disobbedire a quella calura e al suo invito all’immobilismo, rifiutandosi di continuare a stare sola con se stessa. Erano circa le quattro di pomeriggio. Oltre alle cicale c’era solo il battito accelerato del suo cuore a farle compagnia lungo il viale che portava allo studio del dottor N.
Aveva preferito viaggiare in treno perché la città del dottore era piuttosto distante dalla sua. Poi aveva preso un autobus e percorso un tratto di strada a piedi.
Lo conobbe in veste di relatore durante un convegno sui modelli di intervento psicologici nelle scuole. Il tono pacato della voce e lo sguardo mite la colpirono particolarmente. Decise di contattarlo in seguito ad un profondo conflitto che le procurava stati di ansia sempre più difficili da gestire. Aveva paura di avere un figlio e alla soglia dei quarant’anni sentiva di mancare ad un appuntamento.
Giunta al numero civico dello studio si accorse che la separavano solo due minuti dall’ora in cui avrebbe dovuto suonare quel benedetto campanello. Il cielo era di un azzurro insolente e il vento non concedeva neppure un alito. Il respiro si era fatto irregolare e i pensieri le evaporavano dalla testa. Per un momento ebbe la tentazione di andarsene. “Come mi è venuto in mente di contattare uno psicoterapeuta?! È un uomo. Non sarà certo in grado di capirmi!”
Poco dopo, l’orologio di una chiesa vicina batté quattro rintocchi.
“Ormai ci sono. Vado”.
Il dottor N. l’accolse con un sorriso appena accennato, le porse gentilmente la mano per le presentazioni d’obbligo e la fece accomodare su un divano rosso di fronte ad una grande libreria. Giulia si torturava le mani sentendo il suo sguardo su di lei.
“Non è semplice” gli disse non sapendo da dove cominciare, benché si fosse preparata mille volte il discorso con cui iniziare.
“Lo so” rispose il dottor N. restando in silenziosa attesa.
Dopo un profondo respiro confidò il suo problema. Era ancora un’insegnante di lettere precaria. Sposata da circa otto anni, non aveva mai trovato il coraggio di avere un figlio. Lo stesso coraggio era mancato anche a suo marito, docente di matematica, fortunatamente di ruolo. Giulia iniziò con fatica a parlare del desiderio di avere un figlio ma anche della paura di affrontare una gravidanza. alcuni mesi prima una sua amica ebbe due aborti spontanei che le causarono una profonda depressione. L’idea che potesse accadere anche a lei la spaventava molto, come quella di essere una cattiva madre. Il dottor N. l’ascoltava limitandosi a poche domande. Con cautela accennò ad una pretesa di controllo e al vissuto del lutto.
Erano trascorsi circa quaranta minuti dall’inizio della seduta e Giulia restava in attesa di un consiglio, considerando la lauta parcella che avrebbe dovuto pagare da lì a poco! Viste deluse le sue aspettative gli si rivolse con un vago sorriso provocatorio.
“Sa cosa penso? Che lei è un uomo e che tante cose non può riuscire a comprenderle davvero!”.
“Noi uomini non potremo mai essere gravidi perchè non abbiamo la predisposizione al cambiamento e la capacità di adattamento di voi donne”.
La risposta la disorientò tanto da indurla a concedersi quell’opportunità.
“Ci vediamo giovedì, alla stessa ora”, la salutò il dottor N. porgendole la mano.
La settimana successiva fu invitata ad accomodarsi su una chaise longue di pelle scura di fronte ad una finestra che si affacciava su un giardino, mentre il dottor N. prendeva posto dietro di lei.
“Mi piace l’idea di stare di fronte ad una finestra che si affaccia su un giardino, è meglio che guardare un muro”. “La natura cambia. Il muro no” fu la risposta alla sua considerazione.
Da allora, la natura mutevole del giardino accompagnò Giulia lungo la vita ricevuta in sorte e quella che aveva deciso di scegliere.
‘Ciascuno è molto più di quello che crede o che credono gli altri’, pensò. ‘In caso contrario sarebbe peggio che morire’.
Nel gioco delle parti aveva sempre sostenuto il suo ruolo di piccola borghese rispettando le aspettative di tutti, fino al momento in cui provò a considerare la possibilità di tradirle. Avere un figlio avrebbe esaurito quasi tutte le azioni e le battute del suo personaggio.
“Ma questo conviene ai morti …” le disse il dottor N. parafrasando la battuta del protagonista di una famosa opera di Pirandello, “ … a chi ha concluso. Lei è viva e non conclude. La vita non conclude”.
Giulia comprese che trasgredire il proprio personaggio equivaleva ad un’azione d’indagine su se stessa, la cui conoscenza le avrebbe dato respiro. Un respiro di vita autentica a pieni polmoni, senza gli obblighi che le gravavano addosso come macigni. Le era stata offerta la possibilità di dare un senso alla sua inquietudine e di compiere un atto di amorevole disobbedienza verso se stessa.
Visitare le sue paure la induceva a ripercorrere i luoghi e i momenti delle mancanze colmandoli di significato in un costante lavoro di traduzione.
Con il trascorrere del tempo, il conflitto che le aveva serrato il petto allentò la presa, sottraendola alle sue ossessioni. Sbrogliando fantasie e realtà ascoltò la solitudine dei suoi desideri imperfetti.
L’atto mancato di avere un figlio la sollevò dal peso di essere una donna sbagliata.
Non rinunciò ai suoi spazi culturali ma al senso di colpa di un mancato adempimento.
“Si può pensare anche di essere diversi”, le fece intendere il dottor N. “si può essere altro”.
Ci sono persone che consumano la vita al di fuori di loro stessi, ce ne sono altre capaci di coltivare un proprio stato interiore da cui attingere per inventare, costruire e pensare.
“I verbi con cui ci si riferisce alla gravidanza sono concepire, creare, generare, originare e partorire. Cosa le consente di esprimere oggi la sua creatività?” le chiese un giorno a sorpresa il dottor N.
“Scrivere” rispose Giulia.
Scrivere le permetteva di giocare con i suoi personaggi, essere quella che desiderava. Quietava malumori, sospendeva doveri, concedeva pause.
“La possibilità di essere autentici permette trasgressioni di regole imposte nel tempo. È il privilegio di appropriarsi del proprio spazio emotivo in maniera consapevole” le disse il dottor N.
A quelle parole Giulia tacque. Depose con calma un silenzio su ogni oggetto dello studio, senza pieghe che potessero sgualcirne le forme. Terminata la seduta si alzò con la stessa calma. Indossò il cappotto, guardò il dottor N. negli occhi e sorrise.