PARETI DI STOFFA
Luisa Di Francesco
Pareti di stoffa
Il semaforo in mezzo al quadrivio rammentava la strada da imboccare, delimitata da alberi piantati lungo il canale di raccolta che scorreva parallelo ad essa. I fusti lisci e le fronde basse portavano le cicatrici dei fuochi che in estate incendiavano l’erba folta, nata selvaggia intorno alle acque morte. La pietra miliare precedeva di poco l’apparire del casolare che tagliava la collina nel contorno netto delle mura di protezione dietro le quali si disfacevano la casa del proprietario e la scala della scuola, sommersa dai rovi e dai cespugli.
Il casolare era chiamato dai nonni “il casino” e unica parte viva di esso era la cappella destinata alle poche famiglie che abitavano in quel luogo. Custodiva la chiave di ferro nero la nonna ed era lei nelle domeniche di preghiera, smesse le vesti quotidiane e indossato l’abito conservato con cura, che apriva il battente legnoso. Nei giorni di Natale e di Pasqua, arricchiva l’esiguo numero di fedeli la presenza di mia madre e di mia zia che, nel primo mattino, accompagnavano la nonna.
Una volta, vinta la forza del sonno, ho seguito il corteo di donne ed ascoltato la Messa pronunciata dal prete del paese giunto con la bicicletta al casolare.
Il sole fermava l’ombra a metà della stanza illuminando l’ultimo dei due banchi; sull’altare, coperto da una tovaglia candida, il crocifisso dorato e, sulle pareti, un solo quadro dai colori confusi nella screpolata pittura e nelle umide macchie.
Quel quadro mio zio si era offerto di restaurare per riconsegnarlo poi alla penombra del luogo ma il prete aveva negato la fiducia e il dipinto, mai staccato dal chiodo, è ancora nella cappella ormai chiusa: unico fedele tra le sedie vuote e le mura ovattate di muffa.
Superato “il casino”, continuavamo per la strada pietrosa disseminate di buche: bisognava abilmente portare la macchina sulle poche zone piane, evitare i fossi in un gioco tortuoso che strappava imprecazioni a mio padre e che divertiva me e mio fratello intenti a rivelare il percorso possibile nell’alternarsi di scarti, cadute, riprese.
Poco prima di arrivare, c’era l’ultimo pezzo, “il fosso”: un solco nel quale l’acqua copriva appena il fondo; salto breve per un passo umano, era un ostacolo difficile per la rigidità del corpo metallico che rischiava ogni momento di rovinare parti vitali. L’approccio al “fosso” era accompagnato dalla scoperta dell’entità dello stesso che variava secondo il periodo dell’anno e, quando la profondità era maggiore, bisognava alleggerire il carico scendendo e controllando, con il capo quasi a terra, l’avanzare cauto della vettura.
Ridevamo allora della fragilità dell’auto, della sua ottusa meccanica, della battaglia delle pietre e della terra sulle ruote di gomma e della vittoria del passato, vivo in quel luogo. A piedi continuavamo il cammino fino a quando, scorta la nonna sulla porta, spingendo e urtandoci, correvamo su per la scala ripida, per vincere la gara al saluto.