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La cuoca - Storia di un terremoto

Luana Troncanetti

1. Nunzia

Sento una voce d’uomo. Giovane, attaccata a due braccia nascoste nel buio. Sento puzza di distruzione, sento la gamba destra morta. Forse sono morta tutta, penso. E invece no. Le orecchie, almeno quelle, sono vive.

«Signora, mi chiamo Fausto… Signora, per favore, mi risponda!»

Rispondere non posso. Sbarro gli occhi, si riempiono di polvere. Bruciano, li sigillo con lo scatto rapido delle galline. Pure il pianto improvviso avvampa, scorre e non so come fermarlo. Non me lo ricordavo più come sono fatte le lacrime. Le anime buone ne spargono tante in giro, le mie se l’è bevute tutte la malvagità. Ho sete, paura, freddo. Ho tutto, ma non glielo posso raccontare a Fausto. Apro la bocca e quella non alita parola.

«La tiro fuori di qui, va bene?». Come se fossi una munella me lo dice. Sorride mentre parla, posso vederlo pure a occhi chiusi.

Sono vecchia e stanca, figlio mio. Sono cattiva. Lasciami qui. Lasciami qui, non te la prendere tutta questa pena. Non mi concede lo spazio dei pensieri. Non può sentirli, poi. Anche se fosse, non li ascolterebbe. Sposta con cura la trave che mi intrappola. Sono incastrata in un buco che odora già di morte, solo per caso non è diventato la mia tomba.

Lo osservo dallo spiraglio delle ciglia mentre si calca l’elmetto sulla testa. Ha una mascherina sulla bocca, capisco appena se ha una faccia oppure no. Mi prende in braccio, ci mette un soffio. Leggera leggera mi sono fatta, come se gli anni non avessero più peso. Fausto sfila fuori dal disastro me e la mia gamba morta. Questa cambia idea, resuscita di colpo. Chiama a raccolta il dolore da martello, picchia come quello della notte che mi ha fatto madre. Sono sopravvissuta pure questa volta, mica lo so se è tutto ‘sto vantaggio.

Dicono che ti ci abitui. Succede, dicono, quando la terra tua ti tradisce fin da piccola. Intrappolata nelle fasce, senza gambe vive o morte per scappare via. Dicono. Ma io non mi ci sono mai abituata all’ululato cattivo che precede il guasto, alle viscere del demonio che si spaccano di colpo e dietro a loro pure casa tua.

Succede nell’Appennino umbro-marchigiano, capita da sempre in paesini sconosciuti come il mio. Certi, se ti metti a controllare, non meritano nome sulla carta. Scorri il dito su montagne e fiumi. Cerchi, ma il posto dove vivi tu mica lo trovi. Poi arriva la televisione e diventiamo tutti famosi. Quelli che fanno sì con la capoccia quando il giornalista chiede se hanno patito lo spavento. Sì senza parole, fanno, trattenendo tutti i santi e pure le madonne. Qui dalle parti nostre abbiamo lingua adatta, pochi freni in bocca, però sta brutto in TV.

Più dignitoso muovere il capo senza l’accompagno di chiacchiere, più signorile di un cretino col microfono che ti fa domande sceme con la risposta già infilata dentro. E’ il dovere suo, poveraccio pure lui. La telecamera si accende e parte la recita di frasi belle, quelle che servono per commuovere la gente. Siamo tutti santi, eroi o mezzi matti, dipende da chi ti guarda in quel momento al calduccio sul divano.

È come avere l’inferno sotto ai piedi e i bombardamenti sulla testa. Una bestemmia sempre incastrata fra palato e lingua, tiri avanti. Mentre ti arrangi con le briciole scampate alla sua furia, te lo chiedi. Se lo domandano pure quelli tutti religiosi, perfino i preti. Anche se ricacci la bestemmia, e alla fine ti scappa una preghiera, te lo chiedi eccome che peccato avrai commesso mai per farlo incazzare così tanto. Quel nemico rintanato alle tue spalle, maledetto a lui. Mai puoi sapere quando partono gli attacchi di un vigliacco che, a vedere dove sta, la organizzi pure la tua resistenza. Ma a chi spari, se non sai dove mirare?

La luce è appostata fuori dalla mia quasi tomba, ci investe con la cattiveria delle cose belle. La gente applaude forte, pare un teatro. Lì per lì non raccapezzo la ragione. Il motivo è un eroe senza faccia: Fausto, me lo raccontano le voci tutte attorno. La divisa gialla e nera, quella per un lampo mi pare di vederla. Sembra un’ape, penso. Mi scappa da ridere. Le api fanno il miele, mica soccorrono i terremotati.

Appena ritrovo la voce voglio ringraziarlo come posso. Con una torta, per esempio, riesco ancora a farle buone come un tempo. Quella coi pinoli e la crema, quella piace a tutti. Cucinare è stata la mia vita, per qualcuno la sua morte. Se ce l’ho ancora le mie pentole, questo non lo so. Più tardi magari qualcuno me lo dice. Voglio fare una carezza all’ape coraggiosa, la mano non risponde. Forse me l’ha mangiata via il terrore insieme ai bocconi della gamba. Chissà se perdo sangue e quel poco di vita che è rimasta, sarebbe pure ora. Mi lamento, muta. La voce non esce. Il dolore parte dal cuore, la gamba fracassata vince. Caccia fuori un male prepotente, vince tutto lei. Smarrisco il cervello nella confusione, vallo a sapé se adesso mòro oppure no.

Fausto mi regala un sorriso con la mascherina ancora addosso. Allora mi accorgo del cielo nel suo sguardo, lo stesso che c’aveva pure lui. Non capiva che poche parole d’italiano, però capiva tutta me. Quelli che vedo adesso sembrano i suoi occhi, pure la voce gli assomiglia tanto.

«Meine liebe…» sussurro prima di svenire.

Fausto penserà che sono matta.

 

2. Clara

La mattina del 26 settembre, prima che la notte si trasformasse in incubo per molti e morte per qualcuno, Clara si era svegliata alzando di scatto la testa dal cuscino. La notifica di tre SMS; i primi due avevano incrinato il sonno già leggero, il terzo le aveva strappato un’imprecazione. Sapeva già di chi erano quei messaggi, senza ulteriore conferma dal display.

Conosce a memoria il contenuto delle preghiere di un uomo che la chiama amore, eppure è stata molto chiara con lui: a letto sei bravissimo, mi piace la bellezza che ci regaliamo ogni tanto, oltre io non vado. Non voglio catene, non voglio legami, il carcere non fa per me. Già dato, grazie.

Lui non ha aspettato un orario decente per tartassarla di messaggi, certe urgenze non conoscono misura. Clara li ha letti senza attenzione dopo aver messo i piedi scalzi a terra e la moka sul fuoco. L’orologio segnava le sette scarse del mattino, la campagna che lambisce i fianchi della casa era ancora lucida di rugiada.

Io scappo di nuovo.

Io qui non resisto più.

Io questa falsa pace non la reggo.

Io voglio altro.

Pensieri confessati alla tazzina di caffè fumante, alle brioche disposte sul tavolo dove la sera prima si era messa a riordinare libri e vecchi documenti. Se qualcuno le avesse chiesto di disegnare la sua vita, in quel momento, avrebbe riconsegnato un foglio piegato a metà. Scarabocchi neri di un vecchio incubo sulla prima parte mentre l’altra sarebbe rimasta vergine, di un bianco immacolato da riempire con qualcosa. Con cosa, Clara non avrebbe saputo definirlo con certezza.

Il ronzio del vecchio frigorifero riempiva la casa vuota, un tempo c’era stato il pendolo a fare da controcanto a quel lamento da insetto mezzo morto. Fu la prima cosa che staccò dal muro una volta rientrata a Camerino, non voleva nulla che scandisse i tempi della sua ritrovata solitudine. Aveva intenzione di godersela in piena libertà, dopo tutti gli anni trascorsi in prigione a Roma se lo meritava.

Avrebbe dovuto riempire il frigo con qualcosa, quel mattino. Fare un salto in macelleria e dal fornaio, le pagnotte che soltanto qui hanno quel sapore sciapo sotto la crosta l’avevano riconquistata presto. Comprare fiori freschi per il vaso di ceramica blu, non ha lo stesso tempo di sua madre per curare il giardino. Non aveva mai saputo come coltivare una figlia, ma le sue dalie erano sempre state le più grandi e invidiate della cittadina.

Avrebbe fatto un salto in centro storico due ore più avanti, passeggiato con tranquillità fra i viottoli medievali, preso un cappuccino in piazza, a due passi dall’Orto Botanico e poco distante dal Duomo. Pranzato in quella locanda con i glicini sul pergolato e i tavolini in radica di noce dove la ricetta dei vincisgrassi è la stessa da cent’anni.

Avrebbe fatto tante cose prima di iniziare il turno delle 19 in ospedale, pensato anche di fare un salto all’agricola a prendere un po’ di concime e dei sassi ornamentali per il suo verde troppo trascurato. Clara avrebbe fatto e pensato molto, quel pomeriggio del 26 settembre, ma non di ritrovarsi - poche ore dopo - a salvarsi dall’inferno, morire di paura e rianimare un infartato. Tutto nello stesso tempo.

3. Nunzia

La cattiveria si annoia a percorrere sempre le stesse strade. Saltella nelle pozze di almeno due sentieri: quello della natura, e allora oscuro ci nasci proprio, e quello del destino. Stessa cosa vale per la bontà, è un caso che non sempre riesci a custodire. Tocca tenerne il peso sulle spalle finché non si insaccano e così lasci cadere il fardello. Tutto d’un colpo, è quello il guaio. Io sono stata custode di entrambe le disgrazie, non si può scegliere di essere soltanto buoni o soltanto cattivi. Dipende da come tira il vento, e quello non lo governa neppure il padreterno.

L’aria dolce che accarezza il grano e quella della tempesta che lo distrugge non le puoi mica controllare, così come lo spiffero che sento sulla faccia adesso. Il resto del corpo è al riparo, ma il viso se lo sta mangiando a morsi il vento. Strano, non è neppure la fine di settembre eppure sto gelando. Forse qualche sciapecottu ha lasciato la finestra spalancata, non lo capisco con gli occhi ancora sigillati. Il freddo parte dalla testa, annaffia la pelle come l’onda di un mare cattivo, violenta le ossa.

Sento lenzuola ruvide contro gli stinchi, è un letto straniero e non lo riconosco. Sento odore di brodo e piscio… No, è ammoniaca. Qualcuno ha lavato il pavimento, sì. Ho sentito i colpi dello spazzolone, poco fa, gocce pesanti cadevano dallo straccio strizzato dentro al secchio. Se solo questi occhi non dolessero tanto, se riuscissi a spalancarli come la finestra ché io mi sento sveglia e loro ancora no.

Se potessi parlare e chiedere, capirei chi mi ospita in questa casa con il pavimento che puzza di pipì, ma solo se ti sbagli ad annusare. Il letto, invece, profuma di Marsiglia e allora il pizzicore delle lenzuola diventa sopportabile. La gamba destra non mi fa più male. Forse si è decisa a morire e vaffanculo, fortunata lei.

Pizzicava pure il mio abito da sposa, stringeva troppo in vita e grattava via la carne dalle ascelle. Color crema, anche se ai tempi miei quella tinta luminosa era un lusso da signori. L’unico della mia esistenza, ora che ci penso. L’aveva tessuto mia madre, partecipò ai preparativi del matrimonio con meno convinzione della mia. Fu un dovere diviso a metà, il nostro: quello di sposarsi - amore oppure no - e quello di spaccarsi la schiena sul telaio. Faceva comodo alla famiglia, non ci si poteva comportare in altro modo.

«Picca, ma’!», mi lamentai con lei.

«Tante cose piccheno fija mia. Vidi de sopportà che quesso è lo meno!»

Lui era un bravo ragazzo, ma non sapevo che l’amore della carne, quello che fa rincoglionire il cuore, è tutta un’altra cosa: mi ci è voluta la ferocia della guerra per scoprirlo. Ci conoscevamo fin da munelli, io e lui. Dividevamo il latte grasso delle vacche, quello denso che lì per lì scaccia il freddo ma più avanti fa venire il mal di pancia. Ero così abituata ai suoi capelli neri che pensai di poterli accogliere sul seno per una vita intera. E invece no, fu una legge da bestie che barattava la terra con le figlie a farmelo credere. Era la necessità della fame che confondeva testa e sentimenti.

In casa nostra ero l’unica femmina da barattare, anche se una sorella io ce l’ho avuta per un po’. Marianna si chiamava, e si stufò presto della vita. Era bionda, figlia della luna come mamma. Di lei ricordo l’odore e poco più, la stranezza di specchiarmi tutte le volte che ci trovavamo faccia a faccia, ma non è poi molto. Esiste una fotografia che la racconta bene, però.

Ci siamo quasi tutti, uno dei pochi scatti di famiglia: babbo, scuro come la notte e come me. Mamma, che lo superava di tutta la testa e stava sempre mezza gobba per non farlo sfigurare. Soltanto tre dei nostri fratelli più piccoli, l’ultimo doveva ancora nascere. Io e Marianna, con il vestitino buono della domenica, per mano e infiocchettate. Lei sorride, dolce. Ha gli occhi a fessura e piega la testa all’indietro. Io ho la faccia ingrugnata e il nastro tutto storto fra i capelli, mi ci impegnavo un bel po’ a essere la copia cattiva della mia gemella.

Quella vigliacca mi ha lasciata sola all’improvviso, non si è neppure preoccupata di avvisarmi. È sparita con la furia degli evasi, due giorni imprigionata dentro al letto e già non c’era più. Magari insieme a lei certe stronzate non le avrei fatte. Mi avrebbe impedito i danni o forse tenuta per mano mentre li provocavo. Sarebbe stato tutto più spassoso o più difficile, non posso sapere se mi avrebbe giudicata oppure no. Più difficile o più spassoso. Doppio, insomma, come eravamo state noi due per sette anni.

Fin da piccola ho avuto i ricci crespi come lana d’agnello, una capigliatura adatta alla pecora nera che sarei diventata. Ero diversa dai miei fratelli, giovanotti alti e biondi da non sembrare figli della mia stessa terra. Facevano girare la testa a tutte le ragazze del paese, ma erano troppo onesti per perdersi dietro a ogni gonnella. Identici a mia madre, sembravano tedeschi, mentre io ero lo sputo preciso del babbo: non troppo alta, con la pelle che si scuriva già col primo sole. Chissà, forse fu l’abitudine ad amare maschi luminosi di capelli a farmi guardare oltre la testa bruna di mio marito. Rimasta sola, con lui disperso in Russia, smarrii la ragione per un ragazzino biondo come i miei fratelli.

Giovanni, così si chiamava il mio sposo, di terra da lavorare ne possedeva un bel po’ e anche il privilegio di essere un mezzadro. Mio padre ci guadagnò con quel baratto, in cambio gli aveva dato soltanto lenzuola, tovaglie, cuscini, la sua unica figlia. Che volete che sia? Mio marito era un pezzo di pane. Gli volevo bene, almeno quello sì. Però a me il pane, senza nient’ altro in mezzo, neppure con i morsi della fame nera mi ha soddisfatta più di tanto.

Nunzia, mi chiamo. Annunziata, per la verità, un nome lungo e faticoso. Già da lì dovevo capire che sarei campata tanto e male. Da ragazza quella testa forte e crespa non mi serviva soltanto per dividere le orecchie, mamma mia lo sapeva questo. Sapeva tante cose lei, faccende che una contadina non viene a scoprire neppure in cento vite.

Sapeva che nascere femmina era una fregatura.

Sapeva che avere un babbo come il suo era vitale, non ho avuto la stessa fortuna.

Sapeva che gli sbagli capitano pure alle persone buone. Anzi, si sbaglia di più proprio per bontà.

Sapeva che le lacrime non si nascondono, insegnò ai miei fratelli a non vergognarsi mai del pianto.

Sapeva che i muscoli non sono la residenza della forza, né la prepotenza quella della ragione.

Sapeva che non era necessario né utile credere in dio, e infatti scriveva il suo nome con la lettera minuscola. Proprio come me. Leggeva anche, una stregoneria per quelle nate che non era ancora il Millenovecento.

Sapeva fare di conto meglio dei fratelli che le elementari le avevano terminate.

Ida, si chiamava. Alta, regale, la pelle bianca che non si scuriva neppure sotto il sole più assassino in mezzo ai campi, sembrava tutto tranne che una contadina. Sapeva tante cose, le rubò tutte dai libri. Li infilava sotto il ricamo delle tovaglie di lino. Sbirciava le pagine fra un punto croce e uno pieno, sulle ginocchia nascondeva sempre il peso bello della libertà. Nessuna delle vecchie messe lì a guardia se n’è mai accorta e le compagne non l’hanno mai tradita. Troppo vigliacche per seguirne l’esempio, le più ottuse la spiavano mentre leggeva nei tanti nascondigli - uno era l’ultimo banco della chiesa - chiedendosi se non fosse un po’ svitata.

Soltanto le più sagge trovavano il coraggio di chiederle come si scrivesse almeno il loro nome. In segreto, la paura delle botte era parecchia. Sorridendo, mentre mia madre trasformava una croce analfabeta nella loro identità. Un nome da saper scrivere; le più povere aspiravano almeno a quella, di ricchezza.

Ida sapeva soprattutto che avrei meritato di più, ma aveva già fatto il possibile per me. Lo stesso regalo l’aveva spartito con tutte le donne del paese. Tutte, anche quelle che - con il veleno fra palato e lingua - la chiamavano la signora. Sapeva tante cose mamma mia, una di sicuro l’ho imparata anch’io: era lei l’aria dolce che si prende cura del grano. Anche se nel mezzo c’erano le vipere, non s’è mai spaventata di accarezzarlo.

Sento di nuovo la tempesta sulla faccia, il vento cattivo e l’ululato che precede la scossa. Sorda vorrei diventare, oltre che mezza cieca e muta. Ho voglia di urlare a chissà chi di chiudere la finestra, non sopporto più la voce dell’inferno nelle orecchie. La gola è ancora secca, le parole stitiche. Forse non lo sanno quanta paura ho io. Magari non ci pensano che sento freddo, che mi manca una gamba e non so come scappare.

Trema tutto: il pavimento, il soffitto, tremano le ossa. Sfuggo piano sotto le coperte, tiro giù le spalle e la testa dal sedere. Tribolo con la pena delle lumache vecchie che si infilano nel guscio. Scivolo sul fondo dove vanno i piedi, capace che laggiù ritrovo un po’ di testa.

Forse mi casca di nuovo il soffitto addosso, neppure so chi piangerà per questa casa che mi ospita. Allora piango io per la minestra sul fuoco e l’ammoniaca, per le lenzuola che piccano e per il profumo di Marsiglia. Piango per la gentilezza sprecata, più che per paura. Tanta bontà di chi mi ha infilata in questo letto deve averlo fatto incazzare un’altra volta, quel bastardo. Tremano le ossa, il soffitto, il pavimento. Trema tutto. Maledetto a lui, il diavolo c’ha di nuovo mal di pancia.

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