La città senza cielo
Irene Giancristofaro
Marcinelle è due città, una esposta al sole e l’altra alla memoria, senza cielo. Chi
ebbe accesso alla seconda, divenne uno del popolo degli invisibili. A costoro sembrò
non appartenere più neppure l’intenzione di un volo. Cunicoli, pozzi e gallerie
interrate le conferivano forme tonde e ovali, inanellate da un tempo curvo su se
stesso, circolare, in cui corpi di giovani uomini si costringevano a marcire.
Percorrendola, si aveva l’impressione di non andare da nessuna parte e qualsiasi
tentativo di inversione di marcia sortiva lo stesso effetto. Lo sguardo tondo di
ciascuno sostava solo per un attimo in quello di un altro, per poi continuare a
fuggirlo. Nera come la tana della sfortuna, era diversa dalle altre città sdraiate al sole
e da quella che le fu madre. Una madre a metà, che non volle mai darla alla luce. La
città senza cielo era femmina per natura, lupa e cagna al tempo stesso. Selvaggia e
domestica, serva e padrona. Grembo di uomini diversi eppure speculari, resi
diffidenti dalla vita che, al tempo stesso, è caso e scelta. Una scelta può dipendere da
un caso e un caso da una scelta. Nel mezzo si trova sempre la volontà di Dio, che
rischia di azzerare entrambe.
Appena dopo la Seconda Guerra Mondiale, stormi di giovani disoccupati emigrarono
verso le miniere del Belgio al richiamo dell’accordo Italo - Belga “Uomo-Carbone”
del 1946, in cui il Governo belga si impegnava a vendere mensilmente all’Italia un
minimo di duemilacinquecento tonnellate di carbone ogni mille minatori immigrati.
Un patto “scellerato” 1 che travestirono da bei manifesti in rosa per il reclutamento
della manodopera, affissi in molti paesi e città. L’accordo prevedeva cinque anni di
miniera, con l’obbligo di farne almeno uno, pena l’arresto. Cinquantamila fu il
numero di uomini che il Belgio chiese ed ottenne dal nostro Paese, prevedendo
l’invio di duemila operai a settimana. Disorientati e vinti da una guerra che non
conobbe misura né giudizio, furono alloggiati in cantine e baracche di ex campi di
concentramento. I bagni e le fontane erano esterni e in comune. Il lavoro nelle
miniere era stato svolto fino ad allora dai prigionieri di guerra. I belgi si rifiutavano di
farlo perché era massacrante, pericoloso e mal retribuito.
Destini di giovani uomini senza giusta via varcarono i confini di una terra straniera,
per nascere una volta di più. La prima in Italia e la seconda in Belgio dove, un giorno
d’estate del 1956, in molti morirono nella miniera di carbone del Bois du Cazier di
1 Paolo Di Stefano, scrittore e giornalista de “Il Corriere della Sera”
Marcinelle, a sud di Bruxelles. Morirono come topi in una vampa d’agosto, l’ottavo
mese dell’anno. Si contarono duecentosessantadue cadaveri, di cui centotrentasei
italiani. Era un mercoledì contrassegnato dalla falsa rassicurazione di un numero dal
carattere tondeggiante: l’8. Anche l’orario recava la stessa falsa rassicurazione: le
08.10. Per soli due minuti, si sarebbe verificata la doppia ora, una particolare
coincidenza oraria sul quadrante dell’orologio, in cui la cifra delle ore è uguale a
quella dei minuti. La doppia ora è destinata ai desideri impossibili. Chiunque noti tale
coincidenza può avere l’opportunità di esprimerne uno. Mi piace pensare che un
desiderio di salvezza si sarebbe potuto avverare, se avesse incontrato un tempo
diverso. Un qualsiasi avanzo di magia l’avrebbe avuta vinta sulla Storia. Ma il futuro
è un’ipotesi, non cerca alleati e va avanti da sé. La malasorte attese che la doppia ora
trascorresse velocemente e accadde senza rimedio nè decenza, come il peggiore degli
inganni, e la morte giunse improvvisa. Entrambe non furono convocate tra gli
imputati di un processo che mise sotto accusa il caso e il caos, assolvendo entrambi.
L’intera colpa ricadde su un minatore italiano morto nel disastro, a cui nessuno potè
più dare diritto di parola. La sentenza finale parve stabilire che chiunque fosse senza
peccato dovesse prendersi quelli degli altri. La tragedia sembrò dissolversi nel
momento stesso in cui accadde, dileguandosi in cupe torri di fumo, senza che nessuno
provasse a considerare davvero quegli uomini che vissero e morirono da vinti. Queste
parole, dure come cristalli di miniera, bucano la storia e ne strappano la trama.
Immaginando di poter ricucire lo strappo, provo a riportare quegli uomini al di qua
del tempo, come in un sogno ad occhi aperti, non chiedendo loro di capire cosa sia
realmente accaduto ma ascoltando ciò che desiderano dire, accogliendoli in una delle
tante stanze dei musei del Bois du Cazier, oggi Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.
Al suo posto sarebbe sorto un centro commerciale, se non fosse stato impedito dalle
proteste degli ex minatori e delle associazioni impegnate a conservare la memoria
dell’emigrazione italiana in Belgio. È sera e le luci sono spente. In un silenzio bianco
vi è l’attesa di ascoltare le loro voci. Il tempo a disposizione è quello di un racconto.
Silenzio
Una voce inizia a nascere da un sussurro e a recitare questa preghiera: “Raccontami
fino a stancarti. Fruga dentro la memoria e le mie tasche. Non voglio parole prestate
per il mio testamento. Non gridano, non le sento”. Poi si allontana piano, per
consentire ad altre voci di parlare. A poco a poco, dei bisbigli prendono forme
irregolari di luce chiara, come corpi umani appena abbozzati. Mi tornano in mente le
parole del sommo poeta: “Vedrai quando saranno più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno” 2 . Gli spiriti iniziano a giungere a stormi,
2 Dante Alighieri, Divina Commedia, Canto V dell’Inferno
trasportati da un vento inquieto che non tace. Dalla nutrita schiera, tentano di
staccarsi coloro che sembrano mossi dal bisogno che un rancore volga a pace. Tra
questi, uno mi chiede se anch’io sono tra quelli che si sono persi. Accarezzandolo con
lo sguardo, gli dico che sono qui per ascoltare, non per rispondere o domandare. Lo
spirito, sentendosi persuaso, resta. “Non svelerò il mio nome, riposto in un giovane
amore che restò in paese a preparare il nido. Solo io spiccai il volo, ritrovandomi
presto in una tana, e nelle tane non si vola. Smarrii il mio amore in un cielo dove i
miracoli non erano a saldo. Durante i miei giorni di miniera pregai un Dio distratto
che non mi fu padre ed io rimasi figlio”.
Al sentire nominare il nome dell’Onnipotente, un altro spirito si fa avanti e, prima di
svelare la sua voce, zittisce coloro che gli ricordano quanto in vita avesse negato Dio
fin nel profondo del suo cuore. Dopo essersi assicurato il silenzio, decide di
confidarsi: “La mia ombra mi seguiva come fosse un cattivo pensiero nel timore che
smarrisse la via, come accadde alla preghiera. Sembrava che anche Dio fosse
sepolto in miniera. ‘Che me ne faccio di un Dio che è morto?’ urlai quel maledetto
giorno d’agosto, ‘no, respira ancora’ sentii gridare da una galleria. Poi non ricordai
nient’altro, nemmeno il mio nome o la mia religione”.
Un vincolo d’amore naturale, secondo cui “ciascun uomo a ciascun uomo è
naturalmente amico” 3 , porta contemporaneamente quattro spiriti ad avanzare dalla
schiera. Disposti dinanzi a me come in processione, chiedono di voler parlare di
seguito, come furono avvezzi a fare con un altro scrittore. La loro non è una proposta
ma una ferma decisione e, dando per scontata la risposta, iniziano subito a
raccontarsi.
“Mi chiamo Taddeo 4 . Ero meccanico prima di diventare minatore. Fui licenziato
dopo che una donna mi accusò di averla molestata. Era un’attrice mediocre, ma
riuscì ad essere convincente nell’unico ruolo che ebbe da sconsiderata protagonista.
Credo che la vita mi partorì in maniera distratta. La volli madre e fu matrigna. Mi
abituò presto a tutto ciò che non è, anche se appare”.
“Mi chiamano Stefano l’amoroso. La vita che conobbi al mio paese era femmina e
affamata come una lupa. Chiunque cercasse di prendere per sé quel femminino
selvaggio ne acquistava il potere. ‘Le femmine sono terra di conquista e nulla più’,
pensavo fiero del mio appetito. Un giorno, decisi di addomesticare la lupa e le chiesi
di seguirmi ovunque andassi. Con una valigia di cartone, attraversai laghi e
montagne e nessuno mi vide più tornare. Scomparvi insieme al mio istinto, ingannato
da una terra straniera con malia di chimera”.
“Per tutti sono Antonio lo spretato perché volli essere uomo e non prete, come aveva
stabilito mio padre lo stesso giorno in cui nacqui. Era convinto che un figlio prete
avrebbe assicurato il paradiso a tutta la famiglia. Ma, nella stanza del seminario,
esponevo eccitato la mia natura alla notte, con lo sguardo fisso alle pareti scrostate.
Non mi sentivo giudicato da un intonaco imperfetto. Imparai presto che il peccato
non va sciupato né consumato a metà, se si vuole goderne davvero. Il mio peccato
appariva una condanna solo a chi era incapace di spiegarlo. Una condanna senza
3 Dante Alighieri, Convivio
4 I racconti degli “spiriti” che dichiarano il proprio nome sono ispirati a storie vere, riportate nel poema di Eraldo Miscia “Nessuno lo sapeva che
eravamo santi”
accusa non aveva bisogno di un’assoluzione. Peccato era stato bagnare nell’acqua
santa quel mio destino nato da un grembo paterno. Era un destino sbagliato che non
poteva accogliere la grazia. Per la mia libertà scambiai la tonaca con una tenuta da
minatore, ma il baratto si rivelò presto un errore che mio padre non ebbe il tempo di
condannare”.
“Filippone, è questo il mio nome. Lavoravo come facchino, prima di andare in
miniera. Ciò che sto per dire desidero rivolgerlo ad una figlia che non fu mia, come
mia non lo fu mai sua madre: Quando eri bambina, tua madre scomparve nel buio di
un amore che ci rese orfani. Non volli lasciarti bastarda e pensai di partorirti di
nuovo, per farti rinascere a modo mio. Lo feci da padre, convinto che sarebbe andata
meglio. Per te mi spinsi fino all’inferno, ma il buio che incontrai in miniera non era
come quello che ti portavi dentro. La tua bellezza la vendesti presto come un abito
dismesso, acquistato per poche lire all’ombra di pini e cipressi che, al nostro paese,
gli uomini conoscono bene. Io ti avrei vestita come le brocche dei biancospini”.
Filippone, prima di congedarsi insieme agli altri tre, avverte che sarebbe presto
giunto anche lo spirito di Canuto, nome a me sconosciuto, non spiegandomi il perché.
Il vento continua a dimenare confusamente la schiera, non accennando ad acquietarsi.
Sembra non proporre alcun’altra direzione se non quella stessa in cui non è diretta.
Un improvviso canto corale invita a scendere in miniera, per scorgere la luna nel
fondo dei pozzi. È pallida e galleggia in uno specchio d’acqua rotto da sassi, che ne
frammenta l’anima riflessa. La sua luce incontra i sogni e le ombre, trovando dimora
nel coraggio di chi scende a guardarla da vicino. Chiunque griderà il proprio nome ad
ogni liquida luna, potrà tornare a cercarne l’eco per non sentirla smarrita.
La visione si interrompe alla vibrazione del suono di un contro coro di minatori che
cantano la terra straniera e impietosa in cui vissero. “Un rito maschio, celebrato sugli
altari, ci volle santi fuori dalle chiese e da ogni verità. Ora, cantiamo parole che si
fecero mute e che nessuno pose sui nostri sepolcri onorati a metà. Ci sentiamo nudi
di giustizia e amore, e ne chiediamo il diritto di vestizione. Solo così potremo
continuare il cammino, senza inciampare nelle stelle”.
Uno spirito impaziente di prendere la parola, si innesta nel finale della strofa. Non
ricorda il suo nome ma la sua storia. “La mia giovane sposa non fu mai madre. Morii
pochi mesi dopo il matrimonio e, come me, si fece fantasma d’amore. Ogni anno, nel
giorno del nostro anniversario, tornava ad essere sposa e a vestirsi di bianco, come
la spuma di mare che offre dimora alle lacrime versate per tutto ciò che abbiamo
perduto. Le donne devono godere del piacere di poter creare, come accade nell’ora
più dolce della notte, quando sentono che un desiderio le ha ingravidate. Un grembo
in fiore non dovrebbe mai appassire d’estate”.
La commozione, che ormai mi stringe la gola, sta per sciogliersi in pianto quando,
improvvisamente, un refolo di vento gelido si insinua nella stanza, annunciando
l’arrivo della Morte. Offesa per non essere stata convocata, ha uno sguardo spavaldo,
senza pudore. Le sue parole colpiscono di sciabola e non di fioretto: “Da sempre
avvezza a servire Dio e il diavolo, sono ladra, femmina di bordello, padrona e
signora degli altari. Non concedo mai un mancato finale. Gioco a rilancio al buio
all’inferno e con i santi. Sono invocata e temuta come la libertà, sacra e terrena
come una religione. Sono un mistero difficile da spiegare, se non lo si è compreso
già”.
Detto questo, si allontana senza voltarsi indietro, cedendo il passo al coraggio di uno
spirito, la cui giovane persona le fu sottratta, come quella dei suoi compagni, con la
destrezza di una frode. “Nell’insana quiete dei sabato sera, mi pagavo amore e
sigarette. Era il giorno della settimana in cui gli angeli giocavano a carte mentre
fumavano Muratti, distraendo lo sguardo da tutto il resto. Ho sempre sentito che la
mia vita fosse un equivoco e aspettai il momento in cui volgesse a dramma o a
commedia. Partii verso una terra promessa immaginandomi vincitore ma, presto, mi
ritrovai tra i vinti. I vinti sono accuditi soprattutto nei ricordi delle donne, tra panni
di lino, fotografie e lettere sgualcite nei cassetti. Credono in un Dio fatto di
contraddizioni e parole consumate, quasi trasparenti. La colpa dei vinti è quella di
essere realisti, pur desiderando l’impossibile”.
È a questo punto che, su tutti, svetta uno spirito atteso da molti. Inizia subito a parlare
con un’eloquenza tale da far intendere che vi fosse stato educato. “Sono Canuto, il
sindacalista. Guerriero in una guerra non chiesta, combattuta tra le ombre di una
fede che temetti perduta. Ho frequentato le parole degli eroi, abitando nei dubbi di
anime che chiamarono sante. Ogni battaglia, aspra e dura, fu per ciascuno una sfida
e una preghiera. L’annuncio di un mattino e l’oscurità della sera. Fui cane tra cani
randagi, abbaiando ad un passato che ancora ringhia. In una mano stringevo il
vangelo e nell’altra il diritto. Il giorno in cui morii, Dio era nelle chiese, dove è più
facile farsi ascoltare. Nelle chiese, i crocifissi e i santi li si può toccare con mano. La
fede non insinua dubbi quando te la trovi davanti. Oh Dio, ti ho perso e ritrovato
tante volte nei miei naufragi, in cui eri tempesta e approdo. Tormento e salvezza. Ti
ho respirato senza comprenderti. Mi hai fatto a tua immagine? Allora, scendi sulla
terra e dimmi cosa si prova a dover morire. Tu che sei creato e non creatura, cosa ne
sai della rabbia e della paura? Quando mi darai delle risposte, assicurati che siano
chiare o dovrai gridarle più forte”.
Al termine di quella che pare un’arringa, tutti gli spiriti che circondano Canuto gli si
stringono addosso incuranti di chi, come un cane, ruba loro l’osso uscendo da una
tana. La soddisfazione provata per l’avvenuta conquista del diritto di parola, riesce a
mitigare la tristezza di uno degli spiriti, la cui morte non fu annunciata. “La morte si
prese il mio cuore in inverno al mattino di quel giorno d’estate, senza concedermi il
tempo di piangere, come se perdere me stesso non dovesse essere importante. Se la
vita è un dono, ciascuno dovrebbe poter decidere come morire. Io avrei voluto che
accadesse in riva al mare, dove conobbi per la prima volta amore, anche se lo pagai
poche lire. A volte, un peccato non confessato può aiutare a vivere o a morire. Io
sono colui che è stato e non aggiungo altro”.
D’un tratto mi accorgo di un trambusto e noto che un nugolo di spiriti sta cercando a
forza un varco tra tutti quelli che sono ancora in attesa di parlare. A nulla valgono
grida e proteste di coloro che sentono di essere stati superati. Il nugolo non sente
ragioni e non si arresta, le parole fremono di testimonianza e protesta: “Stranieri in
una terra di luna, fummo greggi di pastori dallo sguardo di lupo, senza pietà e giusta
legge. Tanto basta a distruggere la bellezza di un’anima, per quanto possa essere
saggia. La grazia non dimora tra le macerie di un uomo e consegna il testimone alla
memoria. Parole orfani avranno altri padri, abiteranno altre stanze, conquisteranno
terre e solcheranno mari. Con le parole non si gioca mai alla pari. Non hanno
confini né colore, conoscono la gioia e il dolore, l’odio e l’amore da sempre e per
sempre. Le parole resistono perché esistono le idee, anche quando proveranno a
combatterle, a dividerle o a seppellirle. Tu che stai ascoltando, prova a spingerci
oltre i limiti di noi stessi. Ricorda la nostra storia con parole vere e non inventate,
con cui farla di nuovo accadere. Conoscerai il dolore della nostra ultima ora, la più
lunga di un tempo che dura ancora. Solo così potremo raggiungere davvero noi
stessi e un altro tempo che non sia adesso. La vita ci degnò dell’imperfetto sorriso di
un giocatore d’azzardo, come imperfetto è il nostro paradiso”.
Mentre seguo con lo sguardo quel nugolo che si allontana, il mio cuore batte così
forte da sollevarsi quasi dal petto. Con gli occhi lucidi, resto immobile e aspetto. Il
tempo a disposizione è quasi terminato e, con un senso di sollievo, ringrazio Dio di
non essere io quella a dover concedere l’ultima parola. Gli spiriti stabiliscono di
operare una scelta tra di loro con il metodo della conta che, a quanto vedo, si rivela
essere l’unico modo democratico di prendere delle decisioni. Il caso mostra di
prediligerne uno che, fino ad ora è rimasto appartato e, concedendogli l’onore
dell’epilogo, lo invita a farsi avanti. Lo spirito avanza con un leggero tremore che
sfuma i contorni della sua figura, all’altezza delle mani e della gola, ma la bocca non
resta muta. “Se la libertà ha un peso leggero, perché il tuo volo costa fatica?, chiese
il mio unico figlio all’alba di un giorno d’estate che mi fu destinato da Dio. Se non
provassi a volare, pensi che le cose andrebbero meglio? gli risposi guardando i suoi
grandi occhi scuri. Lui alzò lo sguardo verso di me e, con la solennità di un
giuramento, rispose di no. Accennai ad una carezza e lo salutai per andare in
miniera, ignorando che non l’avrei rivisto a sera, perché la mia vita ebbe fine quel
giorno. Aspettò a lungo il mio ritorno fuori dai cancelli, contando i soli, le lune e gli
uccelli. Di me gli restano un paio d’ali presi a nolo, la paura di un uomo e il
coraggio di un volo”.
Un grido irrompe sul finale, pare quasi d’animale, in cui trova nascondiglio non lo
spirito di un padre o di un figlio ma quello di una madre che, avanzando dalla schiera
degli spiriti in bufera, si concede il diritto dell’ultima parola e quello di altre donne
che tacciono ancora. “I nostri uomini partirono per una terra di mezzo, tra passato e
futuro, affrontando la vita a muso duro. Scialli scuri li abbracciarono con parole di
spine e di rose, nascondendo occhi di madri e labbra di spose. Quando per loro
giunse la morte, i nostri cuori di donna divennero onde gonfie di mare che iniziarono
a sbattere su di noi. Ogni battito sembrava infrangersi come vetro, mentre il sale
bruciava le ferite. Sentimmo un freddo di tramontana anche se si era d’estate, una
stagione buona per le semine e i raccolti, per bagnarsi nelle acque dei mari e dei
fiumi, stipare cibo per l’inverno e stendere al sole bianchi panni di lino, come le
lenzuola in cui le donne fanno l’amore e partoriscono la vita, le tovaglie dei giorni di
festa, le fasce per neonati, i manti per gli altari e i sudari con cui asciugare il dolore.
Sembrano tracciare confini tra la vita e la morte, le scelte e la sorte. Tutto il resto è
silenzio e memoria. I sepolcri e gli altari resteranno bianchi all’ombra della Storia”.
A queste ultime parole il vento scompare nel nulla. Gli spiriti si congedano con un
inchino di ringraziamento e riprendono il cammino dal punto stesso in cui erano
giunti. In questo strano sogno ad occhi aperti, ho imparato che la profonda solitudine
di ciascuno è un luogo che nessuno sa e dimora in un tempo che tempo non ha.
Silenzio.
Buio.
Irene Giancristofaro