Il capostazione di Casamassima
Pompeo Nicola Cavalera
1° Capitolo
Lo scampanellio della Leopolder, con il suo suono monotono e fastidioso, annuncia l’arrivo del treno AT7, il locale Bari-Putignano. I viaggiatori escono dalla sala d’attesa, avvicinandosi ai binari si distribuiscono alla rinfusa sul marciapiede, cercano di non superare il limite della linea gialla, ciascuno va ad occupare un posto, recita anche, per pochi minuti, brevi scene, come un cortometraggio.
Concitata si affretta la mamma, con senso di protezione, prende la mano della sua bambina e l’ammonisce affinché le rimanga vicina, incuranti del via vai, una coppia di fidanzatini, abbracciati, si sbaciucchiano, appoggiati ad una colonna, apparentemente dimentichi dell’approssimarsi del treno o di qualche curioso in là con gli anni, che con nostalgia li osserva, perso in un tempo che fu, una coppia di anziani, placidi e sonnacchiosi, consapevoli dei limiti posti dalla incipiente vecchiaia, sono stati i primi a muoversi, lentamente, appoggiandosi l’un l’altra, si avviano alla passerella.
È una bella giornata di aprile, la primavera è da poco iniziata, un sole timido e tiepido cerca di resistere ad un fresco venticello di maestrale che giustifica ancora il cappotto, ma non scoraggia nei più temerari il maglioncino.
La campanella smette di suonare, il silenzio riporta tutti alla realtà, sanno, che fra un attimo comparirà il convoglio, carico di destinazioni: lavoro, studio, diletto; ognuno ha scelto il suo e tenta d’immaginare l’impegno del vicino.
Seduto davanti al banco Acei, do la via libera al treno, guardo le spie luminose che mi rimandano ad altre luci, ad altri suoni, mi assento, volo via. Vedo accendersi luci rosse, sibila nelle orecchie il rumore secco di una frenata sull’asfalto viscido.
“Scusi, mi dà un biglietto per Putignano?”
Giro la testa verso l’origine della voce, che, violentemente, mi ha riportato alla realtà.
“Per piacere, il treno sta arrivando!”
Una bella ragazza mi guarda un po’ allarmata, mi alzo dalla sedia, mi avvio verso la biglietteria e le sorrido.
“Non si preoccupi, il treno non parte, se non alzo la paletta!”
Le do il biglietto ed il resto, la ragazza mi guarda, sorride soddisfatta.
“Grazie.”
“Buon viaggio” le dico e mi avvio al microfono, premo il pulsante, la mia voce riecheggia in tutto il piazzale.
“Locale per Putignano è in arrivo sul secondo binario, prestare attenzione.”
Il treno, rosso sgargiante, composto da tre ATR, entra lentamente in stazione, libera l’itinerario d’arrivo dietro di sé, con la conseguente apertura del passaggio a livello, si ferma sul secondo binario, per il momento appagato del percorso compiuto, quasi scalpitante, pronto a riprendere la corsa.
Dopo parecchi anni di questo lavoro, dopo aver visto passare tanti treni, penso, fantasticando, che questi mezzi siano dotati di vita propria. indipendente dal capotreno e dal macchinista. Essi si muovono, come serpenti, attraverso la nostra vita, ci aiutano a spostare i nostri corpi, le nostre menti per amore, per odio, per fuggire o ritornare.
Premo il pulsante sul banco, che permette al segnale di partenza, di disporsi a verde. Nel tempo di chiusura del passaggio a livello della via del cimitero, prendo il berretto, simbolo del mio lavoro, rosso, non per estetica (impugnato e rivolto verso il macchinista serve a bloccare il treno in caso di emergenza), lo poggio sul capo lentamente, per non scompigliarmi i capelli, afferro la paletta verde di comando ed esco sul piazzale, i viaggiatori in arrivo stanno attraversando la passerella, quelli in partenza salgono sul treno.
La mamma apprensiva aiuta la bambina con la stessa premura con la quale il vecchietto fa salire la moglie, la coppia di ragazzi, perduti nel loro mondo, sembra quasi non essersi accorta del sopraggiungere del treno.
“Ragazzi, dovete salire?” chiedo loro gentilmente.
“Sì, sì un attimo” si scusa il giovane, sollevando una mano a sua discolpa, si distacca con dispiacere dalla sua ragazza e sale velocemente sul treno.
Il capotreno, fermo vicino alla scaletta, mi saluta, salendo mi dà il “pronti”.
Emetto un breve fischio col fischietto che ho sempre nella mano sinistra, attendo un altro secondo per permettere all’eventuale distratto di scendere, mi rivolgo verso il macchinista già affacciato ed alzo la paletta di comando.
Il treno si muove e lentamente riprende la sua corsa, per fermarsi alla stazione sccessiva, Sammichele.
Resto fermo, guardo i fanali rossi della coda che si allontanano, penso che il suo passaggio in una stazione sia come la vita, nasce, soggiorna e muore in pochissimo tempo, così fuggente anche se la vita sembra più lunga.
A questi pensieri il mio animo si incupisce, stanno per venire di nuovo a galla avvenimenti tragici che la mia mente tende, senza successo, a dimenticare.
“Capo al telefono.”
Mi volto sorridente, grato al mio collega e collaboratore per avermi distolto dai miei rimuginamenti.
“Grazie Pino, per piacere prepari un caffè? Ne avrei proprio bisogno!”
In realtà non ho bisogno del caffè, in quanto tale, voglio preparare la bocca ad accogliere il fumo di una malefica ma indispensabile sigaretta, anche il più inesperto fumatore sa che la “morte” della sigaretta è proprio dopo un buon caffè nero e forte, Pino in questo è un maestro, il migliore. Seduto, con le gambe distese sotto il banco manovra, le mani intrecciate dietro la testa, fisso l’orologio sul muro di fronte: 12,57, le lancette sembrano quasi ferme, segno inconfondibile che il mio turno sta per finire, spero con tutto il cuore, anzi, con tutto lo stomaco vuoto, che Mario, il mio collega, venga a darmi il cambio il più presto possibile.
Il tepore che viene dalla porta aperta ed un po’ di stanchezza mi fanno chiudere gli occhi.
“Che fai, dormi in servizio?”
Apro gli occhi, Mario, appoggiato al banco, mi guarda con un sorriso canzonatorio.
Oltre ad essere un collega, è anche un caro amico, tante le serate trascorse insieme con le nostre rispettive compagne, fondamentale la sua presenza e amicizia dopo la disgrazia.
“Ma che dormire, pensavo.”
“Sì, pensavi di dormire o dormivi pensando? Comunque, tutto a posto il servizio?”
“Certo, tutto OK, verrà nel pomeriggio una ragazza, a cui devi correggere l’abbonamento.”
“Non ti preoccupare sarà fatto, ora vattene a casa e salutami Chiara.”
“Grazie, a proposito come sta Anna, è da parecchio che non la vedo.”
Mario ed Anna sono sposati da tre anni, non hanno avuto subito un figlio, dopo qualche accertamento ed una curetta, a cui si sono sottoposti entrambi, finalmente attendono un bambino, Anna è incinta di tre mesi.
“Adesso molto meglio, le nausee sono quasi finite ed il dottore ha detto che tutto procede bene.”
“Sono contento, portale i saluti miei e di Chiara.”
“Beh, ancora qua? Va’, altrimenti Chiara non mangerà niente oggi.”
“Ciao, ci vediamo domani al cambio”
Prendo lo scooter, mi infilo il casco e mi avvio verso casa.
Preferisco, quando posso, non prendere la macchina, con l’arrivo della primavera mi piace usare lo scooter, mi dà un senso di libertà, i colori e gli odori sono palpabili.
Abito a Casamassima, un paese al limite estremo dell’hinterland Barese, non tanto vicino da essere considerato un quartiere dormitorio, ne tanto lontano da non poter usufruire delle peculiarità del capoluogo.
Questo, la vicinanza con quell’arteria importante quale la statale cento che unisce Taranto a Bari e l’essere al centro di un bacino a mezza costa tra le colline ed il mare, hanno convinto i dirigenti del gruppo Auchan a costruire quindici anni fa un grosso centro commerciale, con allegato multisala ed altri megastore.
La mia casa è in periferia, in via Bari,non più nuova, porta i suoi anni nascosti da due ristrutturazioni, è spaziosa, adesso anche troppo per sole due persone e diventa oneroso pulirla.
A questo provvediamo io e Chiara con l’ausilio di Margherita, tre volte alla settimana mette in ordine, pulisce e stira, noi, malgrado gli sforzi, non siamo molto abili in questi compiti.
Alcune volte Margherita ci prepara qualche buon piatto, tipico della cucina locale, tendenzialmente contadina, allietando i nostri palati ed interrompendo la nostra dieta a base di piatti veloci, molto spesso freddi o precotti.
Ripongo lo scooter nel box, prendo una bottiglia di vino, un favoloso primitivo abboccato di 15 gradi, un fardello di acqua ed entro nell’androne delle scale.
L’ascensore è occupata, sta scendendo, mi accorgo che c’è posta nella cassetta, l’apro, bollette e richieste di soldi a favore delle popolazioni dei paesi del terzo mondo.
“Buongiorno Signor Cervellera.”
L’ascensore si è fermato al piano terra, ne esce la signora Colombo del 4° piano, bassina, pienotta, quarantacinquenne, separata, capelli di un colore indefinito ed un viso anonimo, mi saluta sempre con quel sorriso che vorrebbe essere allusivo, ma risulta, a mio avviso, molto comico.
Soffoco il riso che sta per affiorare sulle mie labbra, lo trasformo a fatica in un sorriso tirato e di convenienza.
“Buongiorno a lei” le rispondo, mi infilo velocemente nell’ascensore e premo il tasto corrispondente al 2° piano.
Le porte si chiudono, mi resta impressa nella mente l’immagine della signora Colombo con un’aria contrariata stampata sul viso.
2° Capitolo
Entro nel mio appartamento.
“Buongiorno!”
È il mio saluto alla casa, sono abituato a farlo sin da piccolo, mia madre mi raccontava che la casa ha un’anima, è una signora dal carattere poliedrico. È dolce, malinconica, allegra, anche volitiva e dispettosa: la Fata della casa.
Mia nonna la chiamava così. È una presenza suggestiva e surreale della mia infanzia, che la maturità ha ereditato senza dimenticare la paura che accompagnava il suo nome. Mia madre lo usava a monito per indurci ad andare a letto nelle fredde sere invernali quando ci redarguiva dicendo:
“Di corsa a nanna, altrimenti o chiamo la Fata della casa!”
A volte alcune cose sparivano e, dopo un certo periodo di tempo, più o meno lungo, ricomparivano magicamente, lì, dove pensavamo di aver controllato, pur non trovandovi niente.
C’era una certa zia di mia madre, tal Concetta, che pretendeva di vederla in un posto ben preciso, che variava da casa a casa, da noi, ci disse la parente sensitiva, la fata della casa era sempre seduta sulla poltrona nel salone.
Da quel giorno né io, né mio fratello, né tantomeno quella fifona di mia sorella, sebbene un po’ scettici a riguardo e non avendo ereditati i poteri sensitivi ed extrasensoriali della strana zia Concetta, ci siamo più seduti su quella poltrona.
Il retaggio delle nostre esperienze infantili resta radicato dentro di noi, così preferisco pensare che la casa contenga un qualcosa di vitale, un po’ lupo nero, un po’ maga buona od anche fatina dispettosa, quindi continuo a salutare ogni volta che vi entro.
“Ciao Nico.”
Il saluto di Laura. In trance mi affaccio velocemente alla cucina, vuota, spio nel salone, vuoto, mi volto verso il corridoio, che porta alle camere da letto, vuoto, tutto tace, silenzio.
Mi arrendo quindi all’evidenza, la voce è risuonata solo nella mia mente, è quello che avrei voluto sentire.
Quando entravo in casa, Laura mi salutava così, venendomi incontro, mi abbracciava e cominciava un rituale tutto suo, mi baciava prima sulla fronte, poi sul naso ed infine sulla bocca con una intensità crescente.
Tante volte l’ho pregata di spiegarmi il significato di questo rito. Lei, sorridendo, si è sempre rifiutata di rispondermi.
A modo mio, mi sono dato una spiegazione, Il bacio sulla fronte era quello premuroso di una madre, quello più intenso sul naso era da amica e quello sulla bocca, più passionale, da amante.
Tutto questo, e molto di più, lei rappresentava per me.
Conscio del silenzio che mi circonda e del vuoto che riempie la mia casa, faccio uscire l’aria dai polmoni, come se un pugile mi avesse dato un destro nello stomaco, mi accascio sulla sedia della cucina con la testa tra le mani, cosciente di una cosa che non voglio ancora ammettere; Laura è morta.
Era l’estate del 2009, precisamente il mese di agosto, il giorno non mi sovviene o non voglio ricordarlo. Il tempo quell’anno è stato quasi sempre bello, a Luglio nel mio periodo di ferie eravamo stati con la bambina, o meglio la ragazza, per i genitori i figli non crescono mai, tre settimane in bungalow del Camping Pineta di Sibari, sul versante ionico della Calabria.
Pur non essendo lussuoso, era un posto veramente idilliaco, con un verde ed un mare spettacolari. Laura si crogiolava al sole come una lucertola, io mi dividevo tra sole e mare e Chiara, impegnata dai giochi, dai vari sport e dai balli che gli animatori proponevano per intrattenere i villeggianti di tutte l’età.
Una bella vacanza rilassante tutta sole, mare ed animazione serale, che culminava sempre col ballo, io e Laura, amanti del liscio approfittavamo di quel momento, per volteggiare sulla pista, ci guardavamo negli occhi e ridevamo come bambini.
Non paghi di questo, tornati alla routine quotidiana, nelle mattine libere dal lavoro, continuavamo ad andare al mare a Cozze, piccola frazione balneare di Mola di Bari.
Avevamo comunque un tempo limitato, per essere alle tredici in stazione, dovevamo partire da Cozze alle 11:30, per noi amanti del mare il gioco valeva la candela.
Quel tragico giorno uel tragicoQil destino, io preferisco chiamarlo caso, non stette al nostro gioco, mentre Laura si crogiolava al sole, che se ne stava in cielo corteggiato da alcune nuvole bianche, ed io ero immerso nelle tiepide ed immote acque di una caletta, incorniciata da una serie di scogli, il mio orologio decise all’improvviso di fermarsi a causa della batteria scarica. Tale inconveniente mi costrinse ad uscire dall’acqua in fretta e furia, per avviarmi con 20 minuti di ritardo rispetto all’orario stabilito.
“Nico, non correre!”
Mi ripeteva mia moglie, con gli occhi incollati sulla strada, bagnata per una pioggerellina caduta solo in quella zona, la mano destra avvinghiata alla maniglia del passeggero, la mano sinistra sulla leva del freno a mano, conscia di non poterlo mai usare, poggiata lì, quasi per un senso di protezione, che il freddo meccanismo le procurava.
Eravamo sulla provinciale, che collega Conversano a Casamassima, una tortuosa ed infima strada di soli diciotto chilometri, piena di curve, che non scoraggiava minimamente la mia guida veloce convinto che, l’averla percorsa tante volte, mi immunizzasse da qualsiasi pericolo.
Questo invece si materializzò fatalmente: dopo una curva un auto ferma si era fermata con gli stop accesi per far passare un tre ruote che usciva lentamente da un tratturo di campagna.
“Nico!”
L’urlo di Laura, scheggia di vetro impazzita nella mente e nel cuore, mi trova con gli occhi spalancati, che fissano il muro con le mani sudate appoggiate alle ginocchia ed un rumore assordante. Metto a fuoco e riconosco lo squillo del telefono.
Mi alzo lentamente, prendo la cornetta del cordless. “Pronto?”
“Ciao babbo, farò mezz’ora di ritardo, non ti preoccupare, torno con l’autobus successivo.”
“Va bene cara, intanto preparo qualcosa per pranzo.”
3° Capitolo
Sciopero degli Autoferrotranvieri di ventiquattrore. Oggi, per i lavoratori appagati dalle passate conquiste, per una politica del governo che tende ad intaccarle, per una recessione economica a carattere europeo e per un sindacato compromesso e diviso, diventa difficile rivendicare i propri diritti, anche per il rinnovo del contratto di categoria, scaduto già da oltre due anni.
Comunque, anche se non sono convinto dell’efficacia dello sciopero in atto, ho deciso di parteciparvi dopo aver garantito la fascia protetta della mattina per studenti e lavoratori.
La mia decisione non è stata dettata da un’alta coscienza sindacale, ma piuttosto da un senso di gratitudine nei riguardi di Sabatini, un collega capostazione segretario del mio sindacato.
Il 18 dicembre del 2000 una ragazza di 17 anni, in ritardo sull’orario, entrò correndo in stazione, scambiò la tromba del treno per Putignano, che stava entrando sul primo binario, con quella del treno per Bari, fermo sul secondo, attraversò di corsa il primo binario e fu investita in pieno dal respingente e trascinata per venti metri.
Resterà per sempre stampata nella mia mente l’immagine di quella splendida ragazza intercettata in volo, dopo aver spiccato il salto che l’avrebbe dovuta portare sul bacchettone, che divide i due binari, invece fermata come un uccellino ferito a morte da una salva di pallettoni.
Non dimenticherò mai la mamma che l’aveva accompagnata alla stazione, immediatamente dopo l’incidente, inginocchiata sul marciapiede a piangere sul corpo straziato della figlia incastrato tra ruota e rotaia. Sotto shock, con l’autoambulanza chiamata per la ragazza, mi portarono all’ospedale di Casamassima.
Tornato a casa, dormii sotto l’effetto del valium fino alle 15:00, quando un carabiniere mi consegnò un avviso di garanzia per omicidio colposo nel quale, tra l’altro mi si intimava di recarmi, quello stesso pomeriggio di sabato, alle 17:30 presso la caserma dei carabinieri di Casamassima accompagnato da un avvocato difensore per essere ascoltato dal P.M.
Stordito dal tranquillante, per me, tutto quello che stava succedendo era come un sogno, anzi un incubo, che non mi apparteneva: era come se mi guardassi dall’alto.
Non sapendo come comportarmi, chiamo Sabatini che reperì l’avvocato difensore e mi accompagnarono in caserma. Riuscii a dimostrare la mia estraneità con l’accaduto. Mi trovavo al posto giusto al momento giusto, non potevo minimamente evitare l’incidente: uscii con i miei piedi dalla caserma, in caso contrario sarei stato fermato, come mi conferma l’avvocato.
Questo episodio mi ha tolto qualche anno di vita, ma mi ha dato coscienza della responsabilità del mio lavoro e quel senso di gratitudine verso il mio sindacalista che tuttora permane.
Così, libero già dalle 9:30, ho deciso di fare una passeggiata a Gioia del Colle, per fare un po’ di spesa alla Coop e andare a prendere Chiara dalla scuola, per evitarle di attendere l’autobus, quello successivo o forse l’altro ancora per via dello sciopero.
Fare la spesa non è mai stato il mio forte, era Laura che provvedeva a scegliere e acquistare verdura, frutta e carne, io intervenivo solo per trasportare i sacchetti fino a casa.
Quando mi mandava da solo a comprare qualcosa, la chiamavo, al telefono tante di quelle volte che lei preferiva ridurre al minimo il mio coinvolgimento. In verità su questo ci marciavo, qualche volta era meglio non sapere e fare l’ignorante, visto che potevo permettermelo, cosciente della bravura di Laura a svolgere i suoi compiti domestici.
Lei questo lo aveva intuito, l’amore è anche saper riconoscere ogni mancanza del partner, capire il suo debole e non farglielo pesare, nascondendo il tutto nella complicità classica di un buon rapporto di coppia.
Ora sono costretto a muovermi per la necessità di provvedere a Chiara, in questo mio nuovo status di vedovo. “Vedovo”, questa parola non la sopporto, preferisco considerarmi single. Ho preso un po’ di familiarità con gli approvvigionamenti, ma sempre col beneficio d’inventario.
Nel supermercato, in difficoltà davanti ad un acquisto, ho imparato a chiedere consiglio a qualche signora più grande di me, innescando il senso materno insito in ogni donna, aiutato da un fisico non male e da un’aria da cane bastonato, che fa colpo sulle donne.
Terminati bene o male i miei acquisti alla Coop, vado al centro del paese per sgranchirmi le gambe e comprare un pacchetto di sigarette, da 10, pensando come ogni fumatore, che questo escamotage mi porti a fumare di meno.
Appagato dalla passeggiata, addolcita da un’aria prettamente primaverile, da un ottimo caffè del bar della piazza, seguito dall’inevitabile sigaretta, mi avvio verso l’istituto di Chiara, il liceo scientifico “Ricciotto canudo”.
4° Capitolo
Seduto in macchina, all’ombra di un pino, per ingannare il tempo che manca al suono della campanella mi accendo una ennesima Benson gialla, una sigaretta così detta leggera per mettere a tacere gli scrupoli di coscienza, e ascolto un po’ di musica.
Le note della stupenda We are the Champions si spandono nell’abitacolo con la voce inconfondibile e magica di Freddie Mercury, morto da vent’anni, dandomi un senso di appagamento.
Mi sento rilassato, è una sensazione che dura poco, la canzone che segue non è certo paragonabile alla precedente ma, per me ha un significato particolare.
Come pioveva dei Binz mi dà un colpo al cuore, era la nostra canzone, mia e di Laura. Il testo ricorda ad entrambi il nostro primo approccio, causato dalla pioggia e dal desiderio di restare soli “in una stanzetta dell’ultimo piano”
Anche se uscita precedentemente al nostro rapporto, questa canzone aveva, per noi, un significato particolare, primo perché piaceva a tutti e due e poi perché il testo ci ricordava il nostro primo approccio causato dalla pioggia ed il desiderio di restare soli “in una stanzetta all’ultimo piano”.
Quando ho cominciato a lavorare nella stazione di Casamassima nel lontano gennaio del 1990, come “apprendista” Capostazione, non ero molto entusiasta di quello che facevo, visto che da piccolo volevo diventare ingegnere e progettare il ponte sullo stretto di Messina. Ma si sa come è la vita, l’uomo fa le pentole e il diavolo i coperchi. Nel mio caso i miei piani furono scombinati dalla la prematura morte, a 54 anni, di mio padre per cirrosi epatica.
Vigeva a quei tempi nelle F.S.E., ferrovia locale che unisce Bari, Taranto e Lecce fino a Gagliano del Capo, di cui mio padre era dipendente con la qualifica d’ispettore, una regola per la quale, in caso di morte dell’agente, il figlio maggiore sarebbe stato assunto nella stessa società
A quei tempi studiavo Ingegneria civile ramo trasporti, non ero in regola con gli esami, venivo dall’istituto tecnico per geometri dove lo studio della matematica non era proprio il massimo. Il biennio universitario, basato su quella materia, mi è stato molto ostico, inoltre non ho avuto la costanza di frequentare tutti i corsi fin dall’inizio.
Quando cominciai a lavorare, mi alzavo presto la mattina prendevo il primo treno per andare a Casamassima. Non ero abituato a queste levatacce quindi, durante il mio primo anno di lavoro sostenni un solo esame, inoltre avendo dimenticato di chiedere il rinvio al militare come studente universitario, il 9 gennaio del ’91 ricevetti la cartolina rosa. Fu inevitabile la partenza immediata con destinazione Maridepocar, a Taranto, dove arrivai con una valigetta, scoraggiato e preoccupato.
In Marina, prima d’inserirmi in un plotone, mi rifecero tutti i controlli medici a cui ero stato sottoposto alla prima visita di leva e, dopo quindici giorni di pellegrinaggi da un ambulatorio all’altro per verificare una mia presunta ulcera duodenale e forse anche grazie all’aiuto di uno zio di una mia amica, colonnello medico della marina, fui rinviato nell’esercito e designato a partire entro l’anno.
Quell’attesa, come una spada di Damocle, mi ha snervato, il rapporto con Laura che comportava, per vederla continui andirivieni tra Bari e Casamassima e la mancanza di allenamento allo studio, fatale per gli esami di ingegneria tutti propedeutici uno all’altro, hanno contribuito a farmi abbandonare l’università.
Comunque, la cosa più bella del mio lavoro è stata la possibilità d’incontrare Laura.
La vedevo partire tutti i giorni, col treno delle sette per Putignano, bella come un angelo, bionda, capelli lunghi ondulati e fluenti come le spighe di grano sotto il sole di maggio, mosse da un venticello di primavera, occhi azzurri di quel mare calmo dove speri di tuffarti per combattere la calura estiva, un corpo sottile e slanciato, nel camminare ad ogni passo dava all’osservatore l’impressione che levitasse.
Con la mano lunga, affilata e ben curata sempre con lo smalto rosa alle unghie che esaltava la sua carnagione chiara, cui nulla poteva fare il sole per oscurare, si portava verso l’alto il ciuffo che accarezzava il suo viso, con un movimento così dolce e naturale, da esaltarne la sua genuina e giovanile femminilità. Ogni volta che entrava in stazione per me era una apparizione, quando la vedevo incedere sul piazzale, facevo di tutto per esservi, limitatamente alle incombenze del mio lavoro.
La osservavo scherzare con le amiche con il suo sorriso che, allargando un po’ le sue labbra rosse e vellutate come petali di rose, mostrava dei denti bianchissimi come porcellana.
Quando sentii, per la prima, volta la sua risata argentina, alle mie orecchie parve come il suono di una piccola cascata in un giardino pieno di uccelli.
“Nico non restare lì incantato, c’è gente alla biglietteria”
Mi richiamava alla realtà Pino con quel sorriso di chi ha capito tutto e fa finta di non saperlo, ed io ribattevo.
“Ma che incantato, vado, vado”
Rientrando, contrariato, nell’ufficio.
Era così evidente questa mia cotta per la studentessa bionda che, forse, anche la destinataria delle mie attenzioni aveva notato il mio comportamento, tanto che mi sembrava di leggere nel suo sguardo un sorriso compiaciuto e di apprezzamento nei miei confronti.
Sicuramente questa poteva essere solo una mia interpretazione e non vedevo l’ora di poterle parlare. La mia timidezza non mi consentiva il primo approccio, attendevo pereiò con ansia il giorno in cui sarebbe venuta a rinnovare l’abbonamento mensile: prima o poi mi sarei trovato quel pomeriggio agognato.
Questo avvenne, la vidi entrare in sala d’attesa con quella grazia innata, che la faceva camminare con movimenti lenti, cadenzati e accostarsi alla biglietteria. Saltai dalla sedia con un movimento veloce e mi trovai in un attimo dall’altra parte del vetro.
“Prego!”, le feci, trattenendo tutte le parole che avrei voluto dirle, Rimasero tutte nella mia bocca, impastata per l’emozione, ebbi solo il coraggio di perdermi nell’azzurro dei suoi occhi: la fissai spudoratamente.
Lei, prima sostenne il mio sguardo, poi, arrossendo leggermente, abbassò il suo, porgendomi la tessera di riconoscimento e l’abbonamento scaduto.
“Mi rinnova gentilmente l’abbonamento?”
Impostai velocemente la macchina dei biglietti, presi la penna e trascrissi sul nuovo abbonamento i suoi dati anagrafici.
Finalmente seppi qualcosa di lei: si chiamava Laura Bellomo, era nata ad Acquaviva delle fonti il 15 maggio del 1972, doveva compire 18 anni, quasi sette meno di me, studiava al liceo scientifico di Conversano, probabilmente era al quinto anno.
Le consegnai il nuovo abbonamento, raccolsi i soldi che lei mi fece scivolare dall’apposita fessura e, mentre presi dalla cassa il resto, decisi di parlarle dicendo la prima che mi fosse venuta in mente, ma almeno parlarle.
“Ciao Laura!”
Stupito, perché non ero stato io a pronunciare quelle parole, alzai gli occhi e vidi che era entrato un ragazzo che doveva rinnovare anche lui l’abbonamento. Mi parve che Laura fosse rimasta contrariata per la comparsa del nuovo venuto. Fissandomi per un secondo, che a me parve lunghissimo, si girò per salutare l’intruso.
Cominciai a maledirmi per la mia inettitudine per non aver saputo approfittare del momento propizio. Comunque, l’incontro ravvicinato, anche senza alcuno scambio verbale, aveva rafforzato in me la convinzione che quella doveva essere la donna della mia vita. Era solo questione di tempo.
“Buonasera”, mi disse, e andò via.
In seguito, non ebbi più l’opportunità rinnovare l’abbonamento. Mi accontentavo di vederla partire e tornare, mi consolava il fatto che i nostri sguardi s’incrociavano e in quei secondi si parlassero muti.
Quando ci mettemmo insieme, Laura mi confessò che, attratta da me, si chiedeva quando io avrei fatto la prima mossa; in questo lei ed il caso mi aiutarono a rompere il ghiaccio.
Era un giorno piovoso di fine aprile, stavo già sul piazzale in attesa del treno da Putignano delle 13,55 che riportava Laura a casa.
La vidi scendere e, mentre attraversava la passerella, ci scambiammo le solite occhiate. Poi fu il marmo viscido, il destino o un movimento intenzionale, questo non l’ho mai saputo, improvvisamente Laura, quando mi fu vicina, scivolò, io l’afferrai a volo, senza poter evitare che urtasse col ginocchio il marciapiede.
“Attenta!”, le dissi, mentre si accasciava nelle mie braccia.
“Oh mi scusi, ahi!” esclamò per il dolore del colpo al ginocchio. Il momento risultò un po’ tragico ma, averla fra le braccia, anche per pochi secondi, m’inebriò.
Ero confuso e conquistato dal suo odore, un misto tra un dolce profumo che usava sempre e l’afrore della sua pelle che sapeva di buono, di pane caldo appena uscito dal forno.
Tornai alla realtà e chiamai a voce alta il mio collega:
“Pino, dammi una mano, sorreggi la signorina, mentre dò partenza al treno”
Lo feci abbastanza velocemente, per dedicarmi alla mia bella che, massaggiandosi il ginocchio, ripeteva.
“Sto bene, non è successo niente.”
Questa volta non volevo perdere l’occasione, vestendomi d’autorità, le obbiettai.
“Signorina è mio dovere rendermi conto della sua salute. Essendo caduta sulla passerella, ha diritto di essere curata a spese della società, la devo portare al pronto soccorso per gli accertamenti del danno e fare la conseguente relazione.”
“D’accordo!”, mi rispose prontamente, con inaspettata arrendevolezza.
“Però gentilmente mi deve permettere di chiamare casa per avvisare mia madre, potrebbe allarmarsi non vedendomi ritornare alla solita ora. Mio padre torna a momenti dal lavoro, sarà lui a venirmi a prendere dall’ospedale, lei giustamente non può fermarsi per il tempo necessario agli accertamenti”
“Si figuri, faccia con comodo, il telefono è quello sulla scrivania”
Mentre parlavo, toccai il braccio di Pino, invitandolo con lo sguardo ad uscire con me dall’ufficio, per lasciare a Laura un po’ di privacy nel riferire alla mamma l’accaduto. Dopo aver parlottato, uscì zoppicando dall’ufficio.
“Possiamo andare, se per lei va bene”
“Pino sostituiscimi, sarò qui per il treno della 14,50”
“Fai con comodo”
Rispose lui con un tono di voce esplicitamente canzonatorio. Detti il braccio a Laura, per permetterle di appoggiarsi, cosa che fece immediatamente con una presa forte e decisa, inaspettata in una ragazza, che poteva pesare, su per giù, una cinquantina di chili. Benedissi la pioggia, che mi aveva costretto ad usare l’auto, le aprii lo sportello, l’aiutai a sedersi, con una familiarità non consueta per due persone, che fra di loro avevano scambiato poche frasi, ma scaturita da quel feeling che ci accomunava già da tempo.
Aveva smesso di piovere ed un sole primaverile scoraggiava la presenza di quelle nuvole che ancora si attardavano.
“Come si sente?”, le chiesi avviandomi. Avrei voluto che l’ospedale fosse almeno a 50 Km di distanza.
“Bene”, mi fece, “se non fosse stato per lei, avrei avuto un danno maggiore, ora lamento solo un dolore sordo al ginocchio.”
“Chiunque si fosse trovato al mio posto, avrebbe fatto la stessa cosa. Mi fa piacere sentirla in forma, anche psicologicamente.”
Intanto eravamo arrivati, l’aiutai a scendere dall’auto, pian piano la condussi nel pronto soccorso e la feci sedere in sala d’attesa.
Andai incontro ad un infermiere mentre mi accorgevo con la coda dell’occhio che lei stava scrivendo qualcosa su un foglietto. Mi presentai e gli spiegai cosa fosse successo.
“Venga signorina”, la invitò l’infermiere.
Mentre mi passava accanto non seppi più cosa dire, arrossii come uno scolaretto preso in fragrante dopo una marachella e farfugliai:
“Signorina…Bellomo poi mi fa pervenire il referto medico…sa, per la relazione.”
Mi sorrise come solo lei sapeva fare e mi sussurrò:
“Grazie, non si preoccupi, sarà mia premura farle recapitare una copia del referto del pronto soccorso”, e mi porse la mano.
Gliela strinsi. Non forte, ma come se fosse di porcellana e si potesse rompere. Restai li a guardarla mentre, appoggiata all’infermiere, entrava nell’ambulatorio. Vidi chiudersi la porta come un sipario nel teatro alla fine di un’opera. Solo allora mi accorsi che nella mia mano era rimasto il fogliettino con il suo numero di telefono.
Non era la fine di un’opera, ma l’inizio di un rapporto bellissimo culminato, come Dio comanda, nel matrimonio, il cui frutto è stata Chiara, nostra figlia.