I Paguri | Estratto | Artisti di Borgo
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I Paguri

Giuseppe Antonio Severini

 

PROLOGO

 

Venne il cavaliere sul suo cavallo bianco e scese per le stradine desolate del paese.

“Come ti hanno ridotto”, pensò guardandosi intorno.

“Ma io ti risolleverò”

 

RITRATTO

 

Chi arriva a Toralba da est si ritrova su una strada trafficata come tante, con rifornimenti di benzina e due piazze quadrangolari alberate circondate da anonimi condomini. Se provieni da ovest, e guardi a sinistra, puoi scorgere dettagli preziosi: campanili, cupole, torri, disegnati sul teatro verdeggiante delle colline. Quanti calano invece dalla strada alta di Boscosa, a nord, vedono il centro storico interamente dispiegato ai loro piedi, tutto pietra nera e tetti di coppi rossi, accanto a una macchia informe e grigia, la parte nuova. Su tutto domina la Montagna, che appare da qui immensamente grande: nevosa d’inverno, nebbiosa d’autunno, d’estate nera e verde, in ogni stagione fumante, o silente, a seconda della giornata. Il paese antico accoglie benevolo il visitatore e gli offre la sua protezione. Nonostante sia a 800 metri di altitudine, sul fianco dell’Etna, si può camminare senza fatica per le sue strade piane, perché il paese fu saggiamente costruito su una piattaforma di pietra lavica e non per un aspro dirupo, tuttavia, se la sua vita può apparire compassata e serena, nelle sue vene segrete vi è altro. La mia fidanzata, che è di Samperi e studia a Catania, sale spesso da noi. Dice che se in città il chiasso e il clamore delle continue novità, il movimento e il traffico coprono il disagio della vita vera, in paese è la quiete a dare l’impressione di una possibile felicità o, al contrario, d’uno stato di malinconia. E come si fa a capirlo? da piccoli segni, parole appena pronunciate, atteggiamenti furtivi che rivelano la verità. Io lo so bene, vivo qui da quando sono nato. Una cosa mi dispiace, che la nostra vita si stia facendo sempre più povera e solitaria.

 

PAGURI

 

La vita di alcuni borghi, come quella d'alcuni di noi, assomiglia alla vita dei paguri. Il paragone appare bizzarro, e so quanto questi crostacei siano poco conosciuti, a mala pena intravisti in qualche acquario. Diciamo subito che il paguro è una specie di gambero dall’addome molle. Come ogni gambero cammina all’inverso, ma nuota male, quindi cerca subito una conchiglia libera, se ne appropria e vi si sistema e non la lascia fino a che le sue accresciute dimensioni non lo richiedano. Protetto dal guscio di un provvidenziale quanto sconosciuto mollusco, vive felice: protende le asimmetriche pinze per sminuzzare ogni detrito commestibile, rotea qua e là gli occhietti peduncolati e continua a camminare all’indietro. Appena ha sentore di un pericolo, si rintana il più in fondo possibile nella sua preziosa dimora e chiude l’uscio con il dorso della chela più robusta. Suo principale, forse unico nemico, il polipo, che riesce a snidarlo dal piccolo rifugio e se lo spolpa con robusti colpi di becco. Talvolta, il paguro fa amicizia con dei finti fiori, le Attinie, ch’egli, in numero di una o più, si carica sul tetto e porta a spasso, interessatamente, poiché quelle, acide e urticanti, rendono più munito il suo maniero. Qualcuno dice che fra loro non vi sia amicizia, ma sfruttamento puro, che il paguro non può levarsele di torno se quelle decidono di attaccarsi, cosa a loro comoda per via dello spostamento gratuito, diversamente assai difficoltoso. Che altro dire del paguro? Che vive così, retrospettivamente, scrocca l’affitto per tutta la sua strisciante e incerta vita, campa grazie alla disgrazia altrui, sopporta suo malgrado clandestini, ma che può farci: anche lui è “portoghese”. E che dire dei molluschi che gli forniscono la meravigliosa e indispensabile dimora? Tanto lavoro, e di tale qualità, per poi crepare e lasciare tutto a un gambero storto e disgraziato! Di chi è la colpa? Questa è la Natura! Nel grande mare ci sono tutti: i forti e i coraggiosi, gli abili e i furbi, i deboli e i profittatori e stanno tutti insieme, carezzati dalle stesse onde, sbattuti o blanditi dalle correnti, a sorbirsi il caldo, e il freddo, a cercarsi - combattersi - sfuggirsi, così, tutta la vita.

 

NELLA CONCHIGLIA

 

Quella domenica Micaela sarebbe arrivata a Toralba e io mi stavo organizzando per accoglierla. A casa la cucina era sottosopra: tavoli, sedie, frigorifero, fornelli e televisione erano imbustati in custodie di cellophane accuratamente sigillate da mia madre, per evitare che venissero macchiati negli imminenti lavori di pittura. La nonna mi aveva invitato a mangiare assieme ai miei, ma avevo detto di no, perché preferivo spicciarmi, dato che Micaela doveva arrivare verso le due. Presi qualcosa da mangiare e me ne andai in terrazza. C'era un bel sole. Sms di Micaela: "Demi, la littorina non parte. Arriverò con un passaggio". - "A che ora?". - "Per le cinque. Mi faccio lasciare all'inizio della strada vecchia e scendo a piedi. Facciamo in tempo a mangiarci qualcosa e andare alla festa di Ciccio". La strada vecchia non è segnalata ed è frequentata solo da pochi paesani. Dopo una curva, d'un tratto, ti si para davanti in un solo colpo d'occhio lo splendore della parte più originale di Toralba: le mura medievali, la porta, il castello, il campanile gotico di S. Giovanni, la villa dei Valenza. Un quadro meraviglioso, che nessuno vede. Avevo il tempo di farmi una pennichella. Misi un cd a basso volume, mi allungai sul letto.

 

Ciccio è un ragazzo piccolo, scuro, di salute cagionevole e molto solitario, che a me e a Micaela fa simpatia. Ha la passione dell’argilla e crea sculture con forme immaginarie, bizzarre e curiose, con uno stile tutto suo, come se volesse infondere in loro la sua strana e inconoscibile interiorità. Parla poco, ascolta molta musica e si astrae totalmente dal mondo paesano, che non gli piace. Si fa troppo pettegolezzo: un fatto avviene all’Annunziata e, tempo dieci minuti, se ne parla a Santa Barbara e dalla parte opposta del paese, a S. Giovanni, il nostro quartiere.

La “festa” consisteva nell’avere invitato noi due, e basta. Da bere c’era solo acqua, perché a lui fanno male gli alcoolici, ma ci offrì un bicchiere di Coca Cola. La conversazione languiva e assaporavamo la quiete, punteggiata dal gracidio delle rane e dal fruscio del vento tra i rami dell’albero di noci sopra di noi.

Premette un tasto dello stereo e le note di “Dark side of the moon” cominciarono a diffondersi nel silenzio. Con un filo teso tra le mani tagliò nettamente una parte dell’argilla, inumidì una pezza e allisciò con cura il volto che aveva modellato. Poi, con un attrezzo creato da lui stesso, fece gli occhi. Guardammo: non era un mostro, ma una donna meravigliosa, di certo quella che lui stava sognando. Secondo me si è ispirato un poco alla mia Micaela, pensai con soddisfazione: quei capelli a onde, i tratti delicati, le mancava solo la parola, la sua voce dolcissima.

*

Giorni dopo, verso l'ora di pranzo, mi chiamò Paride, mio ex professore delle superiori: “Passa da casa, sono rientrato”

“Finisco un lavoretto e arrivo”

In un attimo mi ritrovai da lui. Era seduto alla scrivania, con una bella camicia bianca. Alto e longilineo: come fa ad essere sempre così ben vestito, visto che è scapolo, ancora a quarant’anni? Beato lui. Scosse i capelli color biondo cenere, sgranando gli occhi grigi verso di me.

“Stai lavorando a quelle carte?” gli domandai.

“Ho appena cominciato. Sembra una specie di guida turistica”

“Il tipo dell’altra volta mi ha telefonato: dice che ha trovato un nuovo fascicolo . Ora ci si è unito un certo Max, te lo ricordi? E’stato tuo alunno per un quadrimestre. Ma dove le vanno recuperando queste cose?”

“Ho paura che vadano a rubacchiarle qua e là, nelle case abbandonate”

“Vabbè , se la cosa ti interessa, possiamo vederle”

“Infatti, Dem, perché no?”

Buttai un’occhiata sulla scrivania: “E tutti questi libri, Paride?”

“Non dirmi che non conosci Don Cono Verzella”

“Sicuro! A scuola ce ne avevi parlato. Era uno studioso dei monumenti di Toralba.”

Suonò il telefono, Paride non rispose.

“Talvolta città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro

“Che fai, parli come un libro stampato?”

“Italo Calvino, Le città invisibili. Riassume bene il pensiero di Don Verzella: una comunità non riconosce più se stessa, se perde il filo della memoria. E se qualcuno vuole ritrovarla, come tentò di fare lui, può capitare che a sua volta si perda”

“Ti faccio osservare che non mi hai ancora offerto una birra”

“Prendine due, vediamo se ti fanno bene”

Aprii il frigorifero: “Oggi Guinness: alla grande!”

Sulla lattina campeggia la bella arpa irlandese in oro: “Gli strumenti degli angeli! Ecco perché gli angeli suonano. Perché bevono!”

“Quanto sei cretino! Non c’entrano né la birra né gli strumenti. Per prima cosa gli angeli salgono e scendono lungo una scala. Hai sentito parlare di Atlantide?” mi domandò, aggrottando la fronte.

“Ho visto un paio di documentari alla tele, ma che c’entra?”

“Platone, nella stessa opera in cui parla di Atlantide, spiega che l’Architetto supremo dell’universo avrebbe ordinato la materia seguendo medie aritmetiche e armoniche e avrebbe disposto i corpi celesti lungo i gradi di una scala pitagorica, fai conto i tasti bianchi del pianoforte”

“Dunque gli angeli sono come le note di una scala musicale”

“Vedo che la Guinness ti fa bene, bevine ancora” mi disse, vuotando la lattina nel mio bicchiere.

“Grazie. Comunque, dietro a tutto questo c’è della matematica, o mi sbaglio?”

“Hai sentito bene, infatti ho citato Pitagora, ma non c’è niente di difficile: quattro semplicissimi conticini”

“Non ci credo. Meno male che la musica non c’entra niente con la matematica”

“Ti sbagli: aritmetica, geometria, musica e astronomia erano le scienze principali dell’antichità, strettamente collegate tra loro”

“Anche così, la matematica non mi diventa simpatica”

Mi guardò storto, si alzò, prese giacca e cappello.

“Domani ti interrogo sulle tabelline” disse ridacchiando “Basta, ora devo andare a scuola, sono in ritardo. Chiudi tu?”

Misi i bicchieri nel lavandino e ci versai dell’acqua. Lasciai le lattine sul tavolo: troppo belle per buttarle. Prima di uscire presi a prestito uno dei libri di Don Verzella, così, per curiosità. A casa spensi la tele e mi dedicai un poco alla lettura. C’era più di qualcosa in quel libro che non mi convinceva. Dovevo indagare.

*

Il giorno seguente andai nella piazzetta di S. Domenico. Un signore calvo in canottiera stava affacciato al balcone e si godeva il sole, mentre osservava me che curiosavo. Nel libro di Don Verzella avevo trovato una vecchia foto in bianco e nero di questo luogo, che occupa l’apice della pianta triangolare di Toralba. Dovrebbero esserci una chiesa, un chiostro e la torre quadrangolare delle mura, ma non se ne scorge alcuna traccia. “Che fine hanno fatto?” pensavo tra me.

“Che cerchi, ragazzo?”

Alzai lo sguardo verso il balcone.

“Cos’è quel libro?”

“E’un libro sulla storia di Toralba”

“Sarà di Don Verzella, allora”

“Sì, infatti”

“E quello non capiva niente, caro”

“Come, non capiva niente?”

“Ha scritto un sacco di fesserie. Immagino quello che avrà raccontato su questa piazza”

“Veramente, nulla. C’è solo una foto, ma non mi corrisponde”

“Sì, ho capito, certo. Hanno fatto bene a togliere tutto, sai? Hanno fatto piazza pulita di quel vecchiume e di quelle brutte stamberghe”

“Mah, veramente mi pareva bella questa chiesa, e il piccolo chiostro …”

“Credi a me, erano solo topaie, hanno fatto bene”

Così dicendo, si ritirò in casa, poi mise la testa ancora fuori: “E non leggere i libri di quell’imbroglione” mi gridò, prima di scomparire definitivamente.

Valutavo la grandezza della piazza, percorrendola a passi regolari, quando mi si fece incontro un vecchio curvo che portava a spasso un cane meticcio bianco e nero. Appena mi vide, il cane iniziò ad abbaiarmi contro.

“Buono, buono” gridava il vecchio “Scusa eh, non fa niente, è buono!” disse a me.

“Senta” gli dissi “lei abita qui?”

“Sì, dietro quella casa d’angolo”

“Vorrei chiederle una cosa. Ha tempo?”

“Certo, certo, dimmi pure”

“Lei abitava qui anche cinquant’anni fa?”

“Sono nato qui vicino e ho vissuto sempre in questo quartiere”

“Bene. Mi sa dire cosa è successo alla chiesa, al chiostro, alla torre?”

“Li hanno abbattuti, il Comune”

“E perché?”

“Per fare quello” e indicò uno squallido edificio prefabbricato: il Poliambulatorio.

“Erano costruzioni pericolanti?”

“Ti posso dire che fino alla sera prima giocavamo nel cortile e, prima di tornare a casa, recitammo la preghiera nella chiesa. Sembrava tutto normale. Invece il mattino dopo arrivarono le ruspe e i camion: in pochi giorni distrussero chiesa, oratorio, torre e si portarono via tutte quelle pietre. Ah, ma ti voglio raccontare un fatto divertente”. Io ascoltavo con attenzione.

“Durante i lavori due balordi andarono a prendere il corpo della principessa”

“Di chi?”

“Della principessa. Noi chiamavamo così una mummia vestita di bianco con una maschera d’argento sul viso custodita in chiesa, dentro una cassa di cristallo. Era una santa, o una duchessa, non so. Insomma, quei due la portarono nella casupola di un vecchio che stava qui vicino e gliela misero nel letto. Immagina le grida di quell’uomo quando tornò a casa!”

“E che fine ha fatto il corpo della principessa?”

“Ah, che ne so? Buttata via, come tutto il resto”

“Che storia macabra” pensavo “che profanazione”

La colpa era del sindaco, mi sussurrò il vecchio, che aveva fatto fare all’Ufficio tecnico una falsa dichiarazione per poter abbattere gli edifici antichi, intascare il finanziamento regionale e costruire il nuovo poliambulatorio: una conquista della civiltà. Non si conoscevano i dettagli.

Mi sentivo confuso. Riguardavo la foto del libro: una bambina coi capelli ricci, a mala pena coperta da un vestitino cortissimo, giocava vicino a un muro diroccato sullo sfondo di quella chiesa che non c’è più.

*

Fine delle indagini. Dovevo pensare al lavoro, così passai dalla falegnameria, che sta appena fuori Porta S. Giovanni, un poco sotto il piano stradale. Tavole e tronchi appoggiati fuori, una porta a vetri grande dà accesso al locale di lavoro, stretto e lungo: a destra la pialla elettrica, a sinistra tavole e pannelli sistemati in verticale, poi la sega a nastro, la levigatrice, e trucioli dappertutto. I gemelli lavorano sempre insieme, come due veri gemelli. Li vidi in fondo, dietro la sega circolare, che stavano incollando quattro listelli di castagno per fare la cornice di una finestra.

"Mia madre mi ha detto di passare"

"Abbiamo tante consegne e non riusciamo a starci dietro. Il lavoro è sempre lo stesso: stuccatura e carteggiatura. Ce n'è per almeno un mese. Appena finiamo con questa cornice puoi cominciare. Se però hai impegni, va bene domani"

Volevo dimostrarmi di buona volontà, perciò dichiarai che cominciavo subito. I gemelli sono figli d'arte, artigiani di stampo antico, scuri e robusti, grandi lavoratori. Quindi, sbarazzato il tavolo che mi avevano destinato, iniziai a carteggiare un travetto, già sagomato per farne un corrimano. Assaporavo l'odore ben noto della polvere di castagno, che ha qualcosa di vegetale anche quando il legno è secco e stagionato. Il colore naturale e la venatura sono bellissimi e, carteggiando, mi perdevo a seguirne gli intrecci delle fibre e le sfumature del colore. Ne avrei avuto per un mese. Ero proprio contento di essere lì.

Verso le undici spuntò un vecchio con un viso abbronzato e rugoso come una melanzana alla brace. Iniziò ad agitarsi e a parlare a voce altissima, come se stesse gridando da una vallata a un'altra. Dai gemelli capitano spesso personaggi bizzarri, che entrano tanto per fare quattro chiacchiere e farsi offrire un caffè.

"Prima della guerra c'erano intere famiglie qui: dieci, dodici figli ciascuna" gridava, agitando il bastone "E lavoravano per un pezzo di pane. Poi, a un bel momento, sparirono tutti: andarono a Torino, a Milano, in Belgio, in Svizzera, in Australia, perché qua non si poteva più vivere"

"E lei perché non se n'è andato?" chiese Tino.

"Mi piacciono i pascoli, mi piace vivere con le pecore. Le conosco tutte, sai? una per una. Ma faccio tante cose"

Infilò una mano nel suo tascapane consunto e ne estrasse un oggetto che dapprincipio non riconobbi, lo portò alle labbra e suonò. Solo due o tre squilli che mi entrarono subito nel cuore. "Nel tempo libero, e io ne ho molto, costruisco friscaletti come questo, con la canna e un pezzetto di legno di fico, vedi?" e mostrò un'estremità dello strumento, conficcandoci una delle sue unghie spesse e bordate di nero.

Non so come gli spunto' un coltello a serramanico tra le mani, lo aprì e, con la punta aguzza e lucida, fece una tacca nella canna. I gemelli si erano allontanati per riprendere i loro posti di lavoro, perciò il vecchio si rivolse a me "Ti insegno, se vuoi"

"Beh, non credo che sarei un buon allievo. Però, mi piace il suono"

Il vecchio posò il coltello, accostò il flauto alle labbra e soffiò.

Guardandolo, pensai che pure io e pochi altri saremmo rimasti a Toralba, lontanissimi dall'accettare che esista qualcosa di diverso, convinti che continueremo a vivere le nostre vite minimali, fatte di riti quotidiani, comuni preoccupazioni, attività provvisorie, come se tutto dovesse conservarsi immutato in eterno. Immaginiamo una serie infinita di Demetri, di Ciccini, di gemelli, che diranno e faranno le stesse cose che diciamo e facciamo noi, come tanti altri prima di noi. Anche la decadenza del paese continuerà più o meno per sempre, o almeno per tutto il tempo della nostra immaginazione. Basta che tutto proceda in modo lento, in un clima sereno, come accade nell'apparentemente infinita sopravvivenza di coloro che passano i cento anni. Non è questo, al massimo, tutto ciò cui la maggioranza di noi arriva ad aspirare?

 

A fine giornata tornai a casa. Venne ad aprirmi mia sorella: il sorriso in persona. I capelli castani le circondavano il viso luminoso e fresco, il corpo sottile nei semplici vestiti di casa. Le mie sorelle avevano studiato, si erano laureate, poi, per non restare qui e finire in casa o a fare lavori che avrebbero avuto poco o niente a che vedere coi loro studi, erano andate via, Manuela a Roma e Adriana a Bologna. A casa ero rimasto io, il più piccolo, unico maschio e il più viziato dei figli, come dicevano loro. Non che i miei avessero bisogno di assistenza, stavano bene ed erano ancora relativamente giovani, ero rimasto per una specie di vocazione. Ognuno ha la sua.

"Non ti sei fidanzata?" le chiesi.

"Ancora no, e tu?"

"Ho una ragazza, a Catania. Si chiama Micaela."

"Che bello! Allora me la fai conoscere?"

"Ora però è a Lisbona per sei mesi, con l'Università"

"Fortunata!" disse Adriana.

"Perché è a Lisbona?"

"Sì, e anche perché ha un ragazzo come te!"

Ci chiamarono a tavola. Rapidi come furetti raggiungemmo la cucina. La mamma aveva preparato una profumata minestra di verdure di campagna, che accompagnammo con il nostro splendido vino rosso.

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