Gli ultimi giorni di Don Piddu
Giuseppe Antonio Severini
STORIA DELLA RAGAZZA EBREA
Il falco disegnava sopra noi magiche ruote, dentro la gran bolla del cielo irrigata di sole. I bimbi seguivano il volo con le boccucce socchiuse e indicavano strillando, poi l’uccello precipitò verso terra e risalì come per incanto sul pugno del falconiere su cui posò lieve, le piumette sollevate dal vento, vibrante di ebbrezza, gli occhi magnetizzati di luce.
Quel giorno iniziò la nostra storia che non è affidata né a penna né a pietra, ma al vento che la tiene con sé, sospesa tra questi verdi e petrosi declivi e la sussurra alle orecchie di quanti sanno ascoltare.
Il falconiere tornò altre volte. Era un uomo alto, robusto, diritto, il volto dai bei tratti armoniosi, gli occhi acuti e brillanti come quelli dei falchi. Si chiamava Paolo Maniscalco e veniva da Palermo o da Trapani.
Fin da principio notai che mi guardava in modo insistente, al limite della convenienza, come se avesse avuto chissà qual segreto da rivelare oppure s’aspettasse che io lo facessi partecipe di qualche misteriosa confidenza.
Il mio signor marito discuteva con quest’uomo di falchi, di cani e di armi. Decise di organizzare una battuta di caccia e volle che partecipassi anch’io, sapendo la mia passione per i cavalli e per l’aria libera della montagna.
Il giorno stabilito Maniscalco venne coi falchi. Era un’ora prima dell’alba. Noi eravamo già pronti e partimmo subito con gli staffieri e i cani.
La notte declinava e l’orizzonte verso S.Giuliano sfumava in un alone verde azzurro. L’aria era fine e il canto degli uccelli accolse il primo spuntar del sole quando eravamo presso la grande cisterna di pietra.
Iniziammo a preparare i falconi. Maniscalco me ne affidò uno, mi fece indossare il guanto di cuoio su cui l’animale si appoggia e giunse il momento di levare il cappuccio
Il falco rimase un attimo immobile, alzò il capo superbo arruffando le penne del collo, sbattè le palpebre sottili e fissò gli occhi nel cielo, il rostro lucido come una levigata scaglia di corno. Mosse un poco gli artigli sul guanto. A un cenno di Paolo slacciai la striscia di pelle legata alla zampa e alzai il braccio. Con una forte spinta degli arti l’uccello partì e le lunghe ali lo portarono subito lontano. Lo vedevamo girare e girare
sopra noi e si impadroniva di me una strana eccitazione, una specie di felicità, per lui che era libero fra i raggi del sole, nell’aria che lo carezzava veloce per tutte le piume del corpo e per me, che mi sentivo trasportata lassù, con lui, nel mondo irraggiungibile.
La caccia quel giorno fu fruttuosa, ma quel che più importa è che si stabilì fra noi un legame forte, come di compagni di ventura.
Oggi pare strano che una donna avesse parte con gli uomini in simili attività, ma un tempo era diverso, e inoltre la mia inclinazione era così forte che sarebbe stato difficile resisterle.
Le battute si moltiplicarono, perché la stagione lo consentiva. Quando restavo a casa guardavo il sole che appariva attraverso la bifora, prima a destra della colonnina bianca, poi dietro, poi lentamente a sinistra…e pensavo ai cavalli, ai falchi e, involontariamente, a quel falconiere. Mi guardava ogni volta come se si stesse specchiando nei miei occhi e le sue dita sfioravano impudentemente le mie quando mi reggeva la mano. Erano attimi, poi l’eccitazione della caccia pervadeva e univa tutti senza esclusione e senza differenze. Verso la fine della stagione propizia, un giorno dall’alba trasparente e adamantina, ci arrampicammo più su, verso alcune radure oltre i boschi di faggi. Il sole splendeva, ma il cielo mutò colore all’improvviso. Nubi arrivate chissà da dove scesero basse e portarono gelo e notte, tra bagliori intermittenti. Due o tre colpi di vento gelido fecero fremere e scricchiolare rami e foglie all’intorno e schiacciarono l’erba, girandovi in mezzo come serpenti.
La grandine si gettò su noi tra scariche di fuoco che colpivano e abbattevano le cime degli alberi più alti. Non eravamo riusciti ad avvicinarci l’un l’altro e le nostre grida furono subito disperse.
Disarcionata, mi ritrovai nel fango. Non udivo più nulla, né nitriti né voci, solo i colpi della grandine. Mi trascinai fino a un muretto di pietre, di là scivolai in un fosso tra i rovi e vi restai, i vestiti strappati, le gambe ferite.
La bufera non accennava a calmare e sempre più avanzava la notte. Pensavo ai bambini, a casa, e ai miei compagni di caccia. Un rumore di rami spezzati, vicino, mi fece riscuotere di colpo. Sentii una vampata di sangue salire al volto, le braccia e le ginocchia traversate da un secco e doloroso scatto, al pensiero dei mille pericoli in agguato nella foresta. Mi aggrappai istintivamente a un ramo e mi ferii con le spine.
“Madonna, come state?”
Paolo! Gli tesi le braccia, lui prese nelle sue le mie mani sanguinanti.
“Dov’è mio marito?”
“Non lo so. Lo cercheremo, ma intanto usciamo di qui”
Ora lo vedevo meglio, graffiato, il volto sporco di fango. Non potevo muovermi, mi dolevano le gambe e la schiena, così dovette prendermi in braccio per portarmi al riparo di una grande roccia, quasi una grotta. Si fece completamente buio e continuava a piovere. Avevo molto freddo e tossivo, così mi strinse fra le braccia e restammo raggomitolati in quella nicchia come due bestie nella tana. Dovevo rifiutare quella protezione che mi salvava la vita, per quanto scandalosa fosse l’aderenza dei nostri corpi?
“Perdonatemi, Madonna. Non credevo che la sorte mi portasse ad esservi tanto vicino” disse. Sentivo le parole attraverso le vibrazioni del capo appoggiato al mio e del petto contro cui premevo una spalla.
“Messer Paolo, è una circostanza infelice, ma è stata una fortuna avervi trovato”
“Non vi adirerete con me, poi?”
“Non datevi pensiero per queste cose, Paolo. Quando l’emergenza passerà tutto tornerà come prima”
Mi parve aumentare un poco la forza della sua stretta.
Respiravamo una contro l’altro e sentivamo il soffio del nostro fiato ora che la pioggia era del tutto cessata. Si udiva solo acqua stillare da mille rami e da mille foglie sopra noi.
“Sara”
“Che vi viene in mente, io non mi chiamo Sara!”
“Sara, figlia di Moshè”
“Questo appartiene al passato. Nessuno mi chiama così da anni…”
Ma il tono era cambiato all’improvviso, senza che lo volessi: il suono di quel nome ci aveva precipitati in un pozzo più freddo e profondo della notte che ci avvolgeva.
“Ma non vi ricordate?”
“Di cosa?”
“La vita di allora, le cerimonie, i fidanzamenti, i matrimoni, le feste?”
Tacevo ostinatamente.
“E di me non vi ricordate?”
“Di voi?”
“Avevo cinque anni quando venni per la prima volta coi miei parenti. Eravamo alla Meskita per la cerimonia di fidanzamento dei nostri cugini. Io mi ricordo di voi, molto bene”
“Davvero? Io vedevo sempre tanta gente…Sì, era bello trovarsi insieme al tempio. Mi ricordo i canti, le luci”
“Io ti donai un fiore azzurro…”
“Eri tu, Samuele?” chiesi in un soffio, mentre gli occhi si velavano di lacrime.
“Sì”
“Che ne è stato della tua famiglia?”
“ Tre di noi sono partiti e ora si trovano a Venezia: Io, i miei genitori e altri parenti abbiamo fatto quel che avete fatto voi: ci siamo convertiti”
“Abbiamo iniziato tutti un’altra vita. Sai che penso? Che Maria e Gesù erano ebrei, come noi…”
“E tuo marito?”
“Mio padre per salvarmi combinò il matrimonio. Voleva che almeno io fossi al sicuro dentro una insospettabile famiglia cristiana. Il mio signor marito era pazzo, diceva, della mia bellezza, che fu accompagnata da una dote ancora più bella!”
“Così siete riusciti ad aggiustare tutto. Nessuna difficoltà poi?”
“Nessuna”
“E i bambini?”
“Peccato mio padre non possa vederli. Ma tu, invece, che hai fatto?”
“Ho iniziato ad andare di paese in paese coi miei falchi, ma sarebbe stato meglio abbandonare la Sicilia. Troppi ricordi, troppo forte il legame col nostro mondo, che non c’è più”
“Non vedi mai nessuno dei tuoi?”
“Ogni tanto. Sono scontenti anche loro”
“Non ti sposi?”
“Voglio sposare una donna ebrea”
Non sapevo cos’altro dire.
“Io volevo te e ti ho desiderata per tutti questi anni. E’ un caso se sono qui?”
Silenzio, pieno di rammarico e di imbarazzo. Mi strinsi nelle spalle, lui mi raccolse ancor più contro di sé. Capii che non avrebbe detto più niente, allora parlai io.
“In un sogno io sono la tua sposa e tu il mio sposo. Shir Ashshirim”
Mi carezzò il viso.
“Quanto sei bella, amica mia. I tuoi occhi sembrano colombe…i tuoi riccioli greggi di capre…”
Mi sentii percorsa da un tremito, nascosi il viso.
“Ma questa notte finirà…”
Drizzai il capo allarmata.
“Ascolta!”
Voci e passi nel bosco, latrati di cani. Uomini avvolti in mantelli, fiaccole levate in alto: stavano arrivando.
Un sogno che non c’è più.
Vedevo chiaramente, tra i deliri della febbre, gli uomini raccolti nella Meskita, i loro abiti colorati. Sentivo le lamentazioni per i morti dal piccolissimo cimitero che sporgeva fuori le mura. Da lì ci si affacciava sul fiume che correva, irruento e libero, fra le rocce della valle, si vedevano i monti sfumati di viola al mattino, i fianchi incisi da nervature di pietra, i pascoli grigi. Saliva una foschia leggera dal basso e laggiù, invisibile, c’era il mare. Mio nonno puntava il dito nodoso e io sognavo il mare azzurro, immenso, che brilla sotto il sole, pensavo all’acqua che mi stava passando davanti e che ci sarebbe arrivata quella sera, l’indomani, come diceva il nonno. Volevo essere acqua.
C’era il bagno delle donne, per la nostra purificazione, c’era la sala in cui il Rabbi riuniva il consiglio degli anziani. E c’erano storie e racconti e insegnamenti. Finchè ebbi sei anni, poi…la crudeltà e l’odio, la stupidità e la follia lasciarono l’impronta sui visi dei nostri cari. Me li ricordo preoccupati, allarmati, li vedevo piangere di nascosto. Captavo parole qua e là: si doveva andar via, lasciare, vendere. Perché?
Andavano e venivano uomini con messaggi, c’erano riunioni e consultazioni segrete. Mio padre usciva dalla sala senza guardarci in viso, stringendosi le mani. Diceva sottovoce qualcosa a mia madre, guardava noi figli con occhi mesti, cercava di sorriderci, mi carezzava le trecce.
Poi la nostra vita si trasformò completamente. La Meskita, il cimitero, il bagno e le sale furono chiusi, venduti alle monache, lasciati in abbandono. Vi crebbero spine e rovi come in un luogo selvatico.
Battesimi e nuovi matrimoni, funzioni nelle chiese, su di noi sguardi incuriositi e ironici, entusiasmo per il facile trionfo sul nostro popolo.
Non eravamo più Ebrei. O lo eravamo sempre, nel fondo del cuore, nella nostra essenza più intima? Che male avevamo fatto per non poter essere più noi stessi avanti a tutti? Anche Miriam era ebrea, Gesù era ebreo! E alla fine non aspettiamo tutti Qualcuno che deve arrivare e non arriva mai? Intanto la nostra sapienza, le nostre tradizioni venivano bandite, i libri bruciati e certamente, con le pergamene dei rotoli sacri, moriva una parte del nostro cuore.
La febbre e il delirio durarono giorni e, quando iniziai a star meglio, mi finsi ancora malata per poter restare sola e pensare. Sentivo i rumori della vita di casa che si svolgeva senza di me. Nell’ombra della mia stanza guardavo verso la luce che filtrava allegra dalle imposte, scrutavo il chiarore sotto la porta per capire chi stava passando, se qualcuno arrivava. Sentivo qualche parola, qualche strillo dei bambini mi giungeva di lontano. Samuele non veniva. Poteva darsi che i rapporti con mio marito si fossero guastati. Stava male anche lui? Chi lo aiutava? Dov’era? Non sapevo ancora che l’Inquisizione aveva iniziato a macchinare conto i neofiti. C’erano stati processi e condanne al rogo per eresia. Lo seppi dall’unica persona che, a parte la domestica, entrava nella mia stanza: il medico, un anziano, vecchio amico di mio padre, il quale mi rivelò infine, comprendendo che ormai stavo meglio, che anch’io ero accusata di eresia e che la Santa Inquisizione stava istruendo un processo contro di me. Samuele era fuggito nessuno sapeva dove.
Così non era per timore di un contagio che mio marito non veniva a trovarmi e che si impediva ai bambini di vedermi!
Il medico mi consigliò di fingermi malata ancora qualche giorno e nel frattempo decidere se restare e affrontare la situazione oppure cercare di fuggire con l’aiuto di amici. Cercai invano di vedere i bambini. La domestica vigilava all’uscio della camera. Mio marito poi li portò a casa dei suoi.
Allora decisi di scappare, sarei sparita per qualche tempo e tornata in incognito.
Di notte, avvolta in una cappa nera che mi gravava il respiro, fui condotta in un’altra casa e il giorno dopo lasciai il paese nascosta in un carro. Non sapevo dove mi portavano. Per tutto il viaggio i miei occhi fissavano il vuoto, il cuore quasi fermo nel petto, la mente prosciugata di ogni pensiero. Ero una palla di stracci nelle mani degli altri.
Giunsi ad Anversa e là fui ospitata da una comunità di fedeli osservanti che mi aiutarono e mi curarono come fossi una figlia. Seppi che Samuele era morto in naufragio e ricevetti frammentarie notizie della mia famiglia, dei bimbi.
Col tempo la mia mente si rasserenò e i miei occhi non furono più tutto il giorno pieni di lacrime. Rinunciai all’idea di tornare, sposai un ricco mercante ebreo ed ebbi altri figli. Penso ancora alla mia terra natìa e ai bambini, troppo piccoli allora per capire. Qualcosa di me resta in loro e si trasmetterà, nell’incoscienza, di generazione in generazione.
Ricordo il paese sul fiume, quel fiume che m’aveva fatto sognare il mare, da piccola, un mare che alla fine ho conosciuto. Ripenso alle mura, alle torri, alle porte, che non erano state fatte per me.
Laggiù i miei occhi di bambina avevano immaginato la scala di Giacobbe, con gli Angeli che salgono e scendono nella fiamma di Dio. Se chiudo gli occhi la vedo ancora.
“ Ed è strano che di comunità siffatta, la cui importanza storica non può esser messa in dubbio, nessun ricordo, nessuna tradizione orale, nemmeno presso Randazzo, ora vi sia. La persecuzione a danno degli Ebrei ha tutto distrutto e cancellato. Vennero gli Ebrei in Sicilia, anche nella parte settentrionale dell’Etna, lavorarono, soffrirono e furono scacciati con la cancellazione anche più particolareggiata e minuta del loro passaggio: fatto notevole, che può dimostrare la violenza della persecuzione e l’indifferenza del popolo di Randazzo presso il quale gli Ebrei si erano accampati”
(Mario Mandalari, Ricordi di Sicilia, Randazzo. Città di Castello, 1902, pp.46-7)