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Dalla Terra alla Toga

Marco Bruno

“Sarà l’ultima volta!” continuava a ripetere tra sé e sé camminando a passo svelto nella nebbia che avvolgeva lentamente il paese nel suo silenzioso abbraccio. Giurava a sé stesso e a Dio che quella sarebbe stata una scelta definitiva. Che era giunto il momento di mantenere il suo proposito. “Sì! Sarà proprio l’ultima volta!”

Era sera ed era ormai giunto sotto un elegante palazzetto del quartiere di Sant’Emidio dove, tra le abitazioni dei nobili e dei potenti di Ascoli Piceno, abitava la donna che amava. Che aveva irrimediabilmente sconvolto la sua giovane esistenza.

Profondamente credente, tornava di continuo con la mente al suo peccato e si rivolgeva al Cielo implorando aiuto. E allora riprendeva lo spietato contraddittorio interiore tra la sua coscienza, molto esigente, la sua volontà, piuttosto debole e il suo istinto fisico, sapendo che quest’ultimo avrebbe preso il sopravvento. Come sempre.

Tutti i giorni passava sotto le finestre della sua amata sperando di scorgere il fazzoletto bianco appeso alle imposte accostate. Il segnale che sarebbe stata sola in casa e che lo avrebbe aspettato dopo il tramonto.

Anche quel giorno, la vista di quel pezzo di stoffa, che risaltava sul colore scuro delle pareti, gli aveva fatto fermare il cuore. Ancora una volta si era reso conto di non riuscire a resistere ai suoi occhi verdi come il mare della Marca, ai suoi capelli biondi, sciolti sulle spalle robuste, al calore del suo corpo, alla sua pelle candida, a quella stanza che profumava di passione, alla sensazione di onnipotenza che provava quando si trovava con lei.

Domenico Baldese, detto “il Bruno”, per la sua folta capigliatura castano scuro, era un ragazzo serio, studioso e responsabile. Non aveva mai creato problemi ai suoi genitori che vedevano in lui e nel fratello maggiore, la ragione della loro vita e il coronamento della loro esistenza.

Era una famiglia benestante. Vivevano nel quartiere di San Venanzio, sul lato nord est della città. Suo padre, ormai anziano, era stato il sarto più importante di Ascoli Piceno e la maggior parte dei ricchi e dei nobili della zona, faceva ancora la fila per farsi cucire i vestiti da lui.

Ormai ventenne, completati gli studi che all’epoca erano d’obbligo per i figli della “Ascoli bene”, aveva iniziato a lavorare nella bottega del padre insieme a Giuseppe, il fratello più grande.

Tuttavia, il rapporto tra i due ragazzi era diventato sempre più difficile. Giuseppe, in qualità di primogenito, si atteggiava a erede naturale dell’attività di famiglia e trattava Domenico come se fosse stato l’ultimo inserviente della bottega, rimproverandolo e umiliandolo tutte le volte che poteva, anche senza un vero motivo.

Forse anche per questo, l’incontro con quella donna affascinante, di vent’anni più grande di lui, moglie di un noto commerciante di stoffe della zona e l’amore travolgente che ne era seguito, rappresentarono un modo per prendersi una rivincita e dimostrare a sé stesso quanto valeva. Così credeva Domenico, assecondando il vizio che ha spesso l’uomo di cercare un alibi per scendere a patti con la propria coscienza e giustificare quindi i comportamenti sbagliati.

Lei, d’altra parte, viziata e capricciosa qual era, fin dal primo incontro aveva deciso che quel bel ragazzo sarebbe stato suo e non ebbe difficoltà a riuscirci.

Quando andava a provare i vestiti nella bottega del padre, voleva essere servita da lui ed ebbe agio di esercitare quelle piccole astuzie femminili, che lei ben conosceva, per conquistarlo. Consapevole della sua bellezza e del suo fascino, impiegò poco ad aver ragione delle resistenze del povero Domenico e questi era caduto tra le sue braccia come un allocco.

“Sarà l’ultima volta!” continuava a ripetere tra sé e sé quando arrivò sotto il palazzetto. Doveva solo assicurarsi che il portoncino fosse accostato: l’altro segnale che gli dava il via libera confermando che la servitù era fuori e che il marito era partito per uno dei suoi viaggi di lavoro.

Sapeva che solo una leggera pressione della mano sulla porta e una stretta rampa di scale, lo separavano da quel piccolo mondo, isolato da tutto il resto, tra le braccia della donna che aveva bisogno di lui, tanto quanto lui aveva bisogno di lei. O almeno così credeva.

“Sarà l’ultima volta!” si ripeteva mentre sentiva il cuore battere forte, lo stomaco che si chiudeva, la bocca asciutta, il sangue che gli affluiva al viso, come se avesse avuto la febbre.

Il cigolio dei cardini lo fece sobbalzare. Ancora pochi istanti e sarebbe entrato nella stanza illuminata dal camino acceso, si sarebbe disteso accanto a lei, sul suo letto caldo, sotto il grande baldacchino.

Si chiuse il portone alle spalle. Si tolse il cappello, si sistemò i capelli con una rapida passata della mano, fece un sospiro profondo e iniziò a salire.

Non era ancora arrivato a metà dei gradini quando sentì un passo pesante da dietro e una mano gli strinse la spalla in una morsa così dolorosa che si sentì mancare il respiro.

«È qui padrone, l’ho preso! È il figlio del sarto!» gridò una voce gutturale mentre una seconda persona lo afferrava e gli torceva le braccia dietro alla schiena immobilizzandolo.

«Portate su quel delinquente! Voglio vederlo in faccia! Quel farabutto!»

«Caro, io non c’entro niente» sentiva la voce di lei tra i singhiozzi «era lui che mi costringeva a vederlo.»

«Zitta tu, sgualdrina! Con te faremo i conti dopo.»

Era una trappola. Domenico sentiva l’alito che puzzava d’alcool e di fumo del più vicino dei due energumeni che lo spingeva da dietro per costringerlo a salire al piano superiore. Ma la scala, strettissima, gli impediva di immobilizzarlo come avrebbe voluto e lo teneva con difficoltà.

Il panico gli paralizzò il cervello. Non sapeva che fare. Gli sembrava di vedere quella scena dal di fuori, come se non fosse stato lui ad essere spinto per quelle scale verso una miserabile fine. Sarebbe stato la vergogna della sua famiglia. Avrebbe dato un grande dispiacere a suo padre. Doveva riprendere il controllo di sé. Doveva agire in fretta. Una volta terminate le scale, l’avrebbero afferrato meglio e allora non avrebbe avuto più scampo.

Il ragazzo non era alto, ma era agile e robusto e sapeva di dover sfruttare la sua rapidità in quel momento. Dopo sarebbe stato troppo tardi.

«Voglio vederlo in faccia quel mascalzone!» sentiva inveire l’uomo dalla stanza della sua amata «voglio strappargli via le budella! Altro che!» urlava con voce baritonale, mentre lei continuava a piagnucolare recitando la parte della povera donna che aveva subito una efferata violenza da parte di quel ripugnante ragazzotto.

Era la fine. La candela appesa alla parete con un robusto braccio di ferro illuminava con la sua fiamma tremolante gli ultimi gradini. Alzò gli occhi verso quella luce. “Non doveva finire così!”

Fu allora che, guidato dall’istinto di sopravvivenza, inspirò profondamente dilatando al massimo il torace e contraendo le spalle muscolose. Allargando poi le braccia con un colpo secco, riuscì ad allentare la presa dell’uomo fino a liberare un braccio. Con esso afferrò il perno della candela infisso alla parete e con la forza della disperazione riuscì a sollevarsi quel tanto che bastava per sgusciare dall’abbraccio mortale dell’uomo. Con una rapida oscillazione all’indietro, prese allora lo slancio e gli sferrò un violento calcio sul torace. Quest’ultimo, preso alla sprovvista, precipitò rovinosamente per le scale, trascinandosi il compare che lo tallonava.

Seguì una sequela di bestemmie dell’uno e di lamenti dell’altro che, dopo un ultimo grido, svenne. Aveva battuto la testa.

“È morto” pensò Domenico terrorizzato mentre superava, calpestandoli, i due corpi che giacevano per le scale. Uscì e iniziò a correre. I vicoli deserti risuonavano dell’eco dei suoi passi nella disperata fuga verso casa, nella certezza di un rifugio sicuro dai suoi genitori.

«Ripetimi bene quello che hai detto» balbettava smarrito il vecchio padre non riuscendo a capacitarsi di quello che il figlio gli stava confessando «con la moglie di quello là? Ma tu sei tutto matto! Non capisci in quale pasticcio ti sei cacciato? Innamorato? Stai scherzando? Ti rendi conto che quello ci ammazza tutti quanti!» continuava a ripetere senza darsi pace.

«E poi ti sei dimenticato che il buon Dio ci chiede perfino di non “desiderare” la donna d’altri! E tu? Tu sei andato ben oltre. Altro che desiderare! Sei andato a letto con la moglie di quello! Amico di tutti i potenti del paese. Ci sarà un esercito di suoi scagnozzi che ti sta dando la caccia. E dove vuoi che vengano se non qui?»

«Padre, mi dispiace tanto, ma quelli mi hanno teso una trappola…Adesso che facciamo?» lo supplicava Domenico «non voglio mettervi nei pasticci.»

«Dobbiamo aspettare che si calmino le acque» disse suo padre abbassando la voce e parlando frettolosamente «tu adesso te ne vai in campagna. Vai nel capanno di caccia di mio fratello, a Castel San Pietro. Lo sai bene come ci si arriva, ti ci ho portato centinaia di volte quando eri piccolo. Te ne stai lì fermo e buono e quando sarà tornata la calma, vedremo cosa fare.»

Domenico indossò gli abiti più pesanti che aveva, si calcò sul capo il cappello da caccia del padre, si mise in tasca il sacchetto di monete che quest’ultimo gli aveva messo nella mano e uscì in strada, per lasciare il paese il prima possibile.

Ormai era tardi. Sembrava che tutta la città fosse stata mobilitata per dare la caccia al ragazzo che aveva “minato la purezza” della moglie di uno degli uomini più importanti di Ascoli Piceno. Giravano in gruppi di due o tre persone, con le fiaccole accese per illuminare la notte. Alcuni tenevano al guinzaglio dei grossi cani da caccia che li avrebbero aiutati a fiutare la pista del fuggitivo.

Era terrorizzato. Inizialmente cercò di camminare a testa bassa, rasente ai muri, cercando di non dare nell’occhio. Poi, mentre attraversava la piazza del mercato che, ironia della sorte, si chiamava Piazza delle Donne, sentì delle voci che urlavano:

«Eccolo! Eccolo! Acchiappalo! Acchiappalo!»

Non perse tempo a girarsi. In preda al panico, riprese la sua folle fuga cercando di distanziare il gruppo di inseguitori che gli correva dietro. Lui era più veloce e oltrepassate le ultime case del paese, si ritrovò in aperta campagna mentre la nebbia sempre più fitta ricopriva ogni cosa impedendogli di capire dove stesse andando, ma nascondendolo allo stesso tempo alla vista dei suoi aguzzini.

Nel tentativo di seminarli iniziò allora a cambiare di continuo direzione fino a perdere completamente l’orientamento. Sentiva in lontananza i cani che abbaiavano eccitati e riusciva a scorgere i deboli bagliori delle fiaccole attraverso la coltre fitta.

«Scioglili, scioglili!» gridava uno dei più scalmanati, pregustando la scena dei cani che facevano scempio del ladro e dell’assassino.

Sì, perché nel passaparola, non si parlava della moglie fedifraga del commerciante, ma del furto di monete d’argento e dell’aggressione a una delle sue guardie che, sembrava fosse morta in un lago di sangue, dopo aver battuto la testa. Ladro e assassino, quindi. Lo aspettava la forca.

Doveva solo scappare. Correre, veloce, più veloce dei suoi aguzzini. Più veloce dei cani che abbaiavano furiosamente in attesa di essere liberati. Correre tagliando per i campi, attraversando i fossi e i canali, anche senza essere sicuro di aver preso la giusta direzione. Doveva salire verso Castel San Pietro, il paese di origine della sua famiglia. Lì, avrebbe potuto tirare il fiato.

Il frastuono alle sue spalle non scemava. Nonostante il buio e la nebbia, i cani riuscivano a fiutare il suo odore. Non avevano bisogno di vedere per sapere dove cercarlo.

Passarono tre ore di quella corsa forsennata. Cambiò più volte direzione, guidato dall’istinto che gli suggeriva di seguire i sentieri in salita. L’avrebbero condotto sul colle dove era adagiato Castel San Pietro. Il castello emerse improvvisamente dalla nebbia davanti a lui.

Non fece in tempo a fermarsi per riprendere fiato. Il latrare dei cani, impazziti per la preda che sentivano ormai loro, riprese più forte e più vicino. Sentiva il tintinnio delle maglie dei collari di ferro che sbattevano nella corsa.

Doveva continuare a correre. La nebbia si stava diradando. Un debole chiarore iniziava a filtrare all’orizzonte, dalla parte del mare. L’alba era ormai vicina.

Lasciatosi alle spalle il paesino, proseguì continuando a salire verso Force, ma poi? Dove sarebbe andato? L’abbaiare dei cani si fece vicinissimo. Si girò e vide due mastini neri che correvano verso di lui con le fauci spalancate. Era finita!

Disperato, riprese la sua folle corsa nella nebbia che era tornata a farsi fitta, fino a quando, all’improvviso, gli mancò il terreno sotto i piedi e iniziò a scivolare sui detriti di una frana causata da un vecchio smottamento della collina.

Rotolò più volte su sé stesso, assecondando i sassi e la terra che lo accompagnarono nella caduta. Si ferì alla testa, alle braccia, alle gambe fino a quando terminò il rovinoso ruzzolone nel fondovalle, sotto un cespuglio. Il volto rivolto verso il cielo che stava diventando sempre più chiaro. I cani, ormai, non potevano più inseguirlo.

Si addormentò o forse perse i sensi per alcune ore e quando si svegliò, il sole era già alto. Riprese allora a camminare. Aveva fame. Quante cose erano successe in poche ore! Dal desiderio di giacere tra le braccia della sua amata alla cruda realtà della fuga. E adesso non sapeva più dove andare.

Aveva capito che per un bel po' non sarebbe potuto tornare nella sua città: con le voci che giravano, l’avrebbero giustiziato non appena riconosciuto. “Posso andare a Roma” pensava “una città più grande, dove non mi conosce nessuno; scomparirei tra la gente. O forse ad Ancona: prendere una galea e andare in giro per il mondo. Sono ancora giovane. Prima o poi chi conosce questa dannata storia morirà e allora potrei tornare a casa!”.

Andare verso nord. Sentiva che era questa la sua direzione. A nord, lontano da Ascoli. Seguì i sentieri orientandosi con il sole. Camminò tutto il giorno e quando calò la sera, entrò nella locanda di un paesino che si chiamava Amandola. Mangiò e trovò un letto per dormire.

Al suo risveglio, fu accolto da una radiosa mattina di sole e per un piccolo lasso di tempo dimenticò le sue angustie. Si rinfrancò con l’abbondante colazione servita dalla moglie dell’oste, che aveva preso a ben volere quel ragazzo dallo sguardo triste e impaurito e che lo aiutò a ripulirsi le ferite al viso. Lasciò quindi il paesino e si addentrò in un bosco alle pendici dei Monti Sibillini che si ergevano poderosi alla sua sinistra. Nonostante il sole e il cielo azzurro, faceva freddo e il maestrale aveva spazzato via anche le più piccole nubi.

Da un lato vedeva la neve che rivestiva un versante delle montagne. Dall’altro scorgeva la striscia verde azzurra del mare. Era la Marca che amava tanto, che sapeva mostrare la neve e il mare in un solo sguardo!

Camminò di buon passo e alla fine della seconda giornata di fuga, mentre iniziava a pensare di essere ormai sfuggito ai suoi inseguitori, si sentì chiamare:

«Ehi, giovine, dove te ne vai a quest’ora da solo?» disse una voce maschile mentre il sole stava ormai per tramontare.

Si girò. Erano tre uomini di mezza età, che indossavano delle povere vesti. Dei cappelloni di stracci avvolgevano il loro capo per ripararsi dal freddo e dalla pioggia. Dei coltellacci dalla punta ricurva, pendevano dalla loro cintura.

Domenico li guardò diffidente. Il più anziano dei tre, con un sorriso cordiale, gli disse:

«Noi ci ripariamo in questo boschetto per passare la notte. Resta con noi. Divideremo il fuoco, il poco cibo che abbiamo e un bicchiere del buon rosso delle nostre parti.»

«Veramente io vorrei camminare ancora un po'» rispose Domenico con tono di scusa «ho ancora molta strada da fare. È lontano il prossimo paese?»

«Beh, il prossimo paese è Belforte, sul fiume Chienti. Ma è ancora lontano, dovresti viaggiare tutta la notte e noi non te lo consigliamo… Qui girano ancora i briganti!» aggiunse poi con una risata sguaiata «dai, resta con noi.»

«Abbiamo una bella lepre da fare allo spiedo!» si intromise il più basso dei tre, tirando fuori la bestiola, da una borsa che gli penzolava su un fianco e tenendola per le zampette posteriori.

La stanchezza, la fame e il cortese invito, ebbero la meglio sulla prudenza che gli consigliava di non dare retta agli estranei. Si sedette dunque con i tre e, riscaldandosi intorno al fuoco, aspettò insieme a loro che la lepre fosse ben cotta.

Le fiamme scoppiettanti illuminavano i loro visi e il profumo dell’arrosto stimolava la fame del gruppetto. I tre iniziarono a far girare un fiasco di vino rosso dal quale bevevano a turno delle grandi sorsate e ne offrirono anche a Domenico. Poi delle fette di pane fresco appena tostato sulle braci. Un clima di grande allegria prese il posto dell’iniziale diffidenza del ragazzo che iniziò a rilassarsi e a sentirsi al sicuro.

Avvenne però che, in coerenza con l’intramontabile ammonimento di “non fidarsi mai degli estranei”, coniugato con l’ottimo insegnamento di suo padre, secondo il quale “nessuno fa niente per niente” il sempre sorridente capo del drappello, chiese a Domenico un piccolo contributo per la cena.

Domenico, reso euforico dal vino che non era abituato a bere, tirò fuori senza alcuna precauzione il sacchetto delle monete d’argento donatogli dal padre e, non essendosi accorto dello sguardo d’intesa che i tre si scambiarono al tintinnio dl piccolo involucro, ne diede una all’uomo. Fu l’ultima cosa che fece. Una poderosa mazzata sulla nuca lo fece stramazzare al suolo.

Era incappato nello sparuto rimasuglio di un nucleo di banditi capitanati da un certo Marco Sciarra, che per più di un secolo avevano terrorizzato la popolazione della zona.

“Ho freddo, tanto freddo, sono tutto bagnato. Questa maledetta pioggia seguita a cadere senza tregua. Perché sono coperto di terra e di foglie? Perché sono completamente nudo? Forse sono già morto e non me ne rendo conto.

…Ho dormito ancora. Di nuovo le zampette che scavano la terra sopra di me e la lingua che mi lecca il viso. Il suo muso freddo e umido. È una volpe. Sempre lei che mi sveglia dal torpore. Adesso il mio viso è uscito da questo sudario. Riprendo a tremare dal freddo. Ma non riesco a muovermi. Forse sono già all’inferno. Con il mio peccato, posso andare solo all’inferno. Ma allora avrei caldo. All’inferno si brucia.

…È notte fonda. Vedo la luna tra le fronde degli alberi. Un terribile dolore alla testa…Il viso di mio padre e di mia madre che piangono. Li vedo spesso davanti a me. Sono in pensiero per me. State tranquilli. Sto bene. …Il suo bellissimo viso. Mi guarda con i suoi capelli sciolti. È nuda. Mi sorride dolcemente. Allarga le braccia per accogliermi sul suo bianco seno.

…Questo orribile squittio! Questo terribile puzzo! Cosa mi tocca il viso? Topi! Sono Topi! Sono tanti. Io sono il loro pasto. Finisco la mia vita divorato dai topi. Via bestiacce! Via! Riesco a muovere un braccio. Lo tiro faticosamente fuori dalla terra. Con una manata ne lancio uno contro il tronco di un albero vicino! Sono famelici, ma non si sentono sicuri come prima.

…Riesco a muovermi. Mi sollevo a sedere. Adesso c’è il sole. Non sono ancora morto. Non del tutto. Mi fronteggiano. Sono tanti. Hanno paura di perdere la loro preda. Mi devo alzare in piedi. Devo riuscirci, ma non ne ho la forza. Mi tocco la testa, là dove mi fa un gran male. La nuca. Sento una crosta di sangue e di terra.

Devo alzarmi in piedi. Riesco a tirare le gambe fuori dalla terra. Mi metto carponi. Maledetti! Continuano a squittire., Indietreggiano.

Devo alzarmi in piedi. Ho tanta fame. Dove sono? Non ricordo niente. Ci sono i resti di un fuoco. L’uomo sorridente che mi offriva da mangiare… È lui! È lui il mio assassino! Lui e i suoi compari. Non ci sono più. Hanno rubato tutto ciò che avevo. Credevano di avermi ucciso. Mi hanno seppellito. Chi di spada ferisce, di spada perisce. Io ho ucciso! Il bandito mi ha ucciso. Ma io non sono morto. Non riesco a reggermi in piedi. Mi gira tutto intorno. Striscio a carponi su un tappeto di foglie secche.

…Mi sveglio all’improvviso. Sento dei cani in lontananza. Forse dei lupi. Se mi fiutano è finita. È notte. Non posso più stare qui, devo camminare. Non ne ho la forza. Troppa fame, troppa sete. È la fine.

…Sto camminando lentamente, strisciando i piedi nudi sulla terra umida, verso una verde valle illuminata dal sole del tramonto. C’è un fiume che scorre tranquillo. Le sue acque sono di colore azzurro…no, verde, verde smeraldo. Mi trascino. Cado di continuo a terra, mi rialzo sempre in piedi. Non devo mollare adesso.

…Scendo verso la valle. Un passo dietro l’altro con la forza della disperazione. Camminare per non morire. Non del tutto, almeno. Un paese! Un piccolo paese arrampicato su un colle. Vedo gente in lontananza. Sento le voci allegre. Cado. Non riesco ad alzarmi. Mi addormento di nuovo.

…Mi sveglio con i raggi del sole che mi scaldano il viso. È una bella sensazione. Un altro giorno e sono ancora vivo. Sono ancora nudo. Ero stato sepolto, ma invece di morire, la terra mi ha fatto rinascere.

Il paese è ancora lì sopra. Non posso salire fin lì, arrivare in mezzo alla gente, nudo. Devo trovare qualcosa da mettere addosso. Rubo delle mele da un albero. Le mangio in fretta. Non credevo che le mele potessero essere tanto buone.

…Continuo a camminare. Mi allontano seguendo il corso del fiume. La sua corrente ora è lenta, ora veloce e spumeggiante. Bevo la sua acqua. È fredda e buona. Mi bagno la testa. Cerco di pulire la ferita dalla terra, dalle foglie. I miei capelli sono ormai marroni per lo sporco. Mi sdraio sotto un albero e dormo ancora.

…Continuo a camminare. Da quanti giorni cammino? Quanta strada ho percorso? Il sole tramonta di nuovo. Crollo ancora a terra, sfinito.

…Che bei colori ha questa campagna! Queste colline così coltivate! Che belle le mura di quest’altro paese adagiato sull’altura. I suoi bastioni baciati dagli ultimi raggi del sole! Sono così stanco. Forse è giunta la mia ora.

…Il sole è di nuovo alto. Quanto tempo è passato ancora. Una voce. Il viso rugoso e abbronzato di un vecchio dall’espressione gentile che mi guarda, mi solleva delicatamente la testa, mi dà da bere.”

«Chi sei ragazzo? Da dove vieni? Fai paura ridotto così!»

“Non devo farmi riconoscere, finché non si saranno calmate le acque…”

«Non ricordo più niente. Dove sono?»

«Sei nel mio podere. Siamo a Tolentino. Ma tu chi sei?»

«Chi sono? Io… mi chiamo Domenico. Domenico… Bruno.»

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